La stessa famiglia di Xiao avrebbe prima richiesto l'aiuto degli agenti e poi ritirato la segnalazione, avendo ricevuto rassicurazioni sulle sue condizioni fisiche. Due comunicati di Tomorrow Group, pubblicati su WeChat lunedì e martedì (e poi cancellati), smentiscono la versione della cattura da parte delle autorità della mainland e confermano il regolare andamento delle attività di business. Xiao che, secondo il portale Boxun, sarebbe riparato a Hong Kong nel 2014 per sfuggire a un'inchiesta lanciata da Xi Jinping, ha passaporto canadese e gode della "protezione diplomatica", assicuratagli dallo status di ambasciatore di Antigua e Barbuda di cui gode dal 2015.
La storia di Xiao ricorda l'odissea dei cinque librai di Hong Kong, prelevati dai servizi cinesi lo scorso anno, in un caso che ha messo ulteriormente in luce l'ingerenza di Pechino negli affari della regione amministrativa speciale, formalmente autonoma sul piano legale ed economico. Se l'espatrio di Xiao non è stato volontario, come suggeriscono le fonti hongkonghesi, ci troveremmo davanti all'ennesima prova di impotenza delle autorità locali davanti all'assertività della mainland.
Mentre rimane da chiarire la natura delle fantomatiche "indagini" in cui risulta coinvolto, la vita dell'imprenditore fornisce preziosi indizi. Di umile origini, il 45enne appartiene a quella generazione di imprenditori nati dal ventre delle proteste di piazza Tian'anmen. Quelli che invece che sostenere le manifestazioni studentesche ne hanno avvallato la repressione da parte del governo guidato da Deng Xiaoping. Una fedeltà grazie alla quale è riuscito a stringere "relazioni intime" ai vertici del Partito comunista. Le stesse che hanno permesso ad altri colossi privati (quali Ping An e Aliababa) di fare successo mantenendo formalmente una propria estraneità al mondo controverso delle aziende statali. Finora gli è andata bene: secondo Hurun, il Forbes cinese, le fortune di Xiao ammontano a 40 miliardi di yuan (5,8 miliardi di dollari). Ma secondo alcune fonti ben informate in realtà Xiao controllerebbe una dozzina di società finanziarie e altre compagnie quotate in borsa attraverso vari entità intermediarie.
Definito da qualcuno "un faccendiere", il "JPMorgan di Cina" ha fatto carriera gestendo gli affari occulti della leadership cinese. Secondo il New York Times, tra i suoi clienti ci sarebbero nientemeno che la sorella del presidente Xi Jinping (impegnata nel 2012 a ripulire il proprio business in previsione della nomina del fratello) e alcuni parenti di Jia Qinglin, ex numero quattro del Partito. Da quando Xi ha assunto il potere, molte personalità a lui vicine sono finite nelle maglie dell'anticorruzione. Impietoso, nel 2013 l'ufficialissimo People's Daily lo definiva "un distruttore di ricchezza". Ecco che secondo molti, quei preziosi contatti potrebbero non aver gradito le indiscrezioni trapelate sulla sua clientela. E con l'approssimarsi di un massiccio ricambio di leadership al prossimo Congresso del Partito (in agenda per l'autunno a venire) le lotte di potere hanno ripreso a far vittime, Victor Shih, professore di economia presso l'Università della California.
Il movente politico non ti convince? Volendo dare per buona la versione del South China Morning Post, la sparizione di Xiao sarebbe piuttosto da collegare agli ultimi scossoni riportati dal settore finanziario. Non è difficile credere che l'opacità dei suoi affari abbia finito per impensierire le autorità impegnate a regolamentare il mercato interno, dopo il tracollo delle borse di Shanghai del luglio 2015. Lo scorso dicembre, Liu Shiyu, presidente della China Securities Regulatory Commission (la Consob cinese), ha definito "barbari", "banditi" e "mostri malvagi" tutti quegli investitori che, impegnati in operazioni di buyout, fanno utilizzo di una forte leva finanziaria. Soltanto lo scorso mese Xu Xiang, ritenuto il migliore gestore di fondi di tutta la Cina, è stato condannato a 4 anni e mezzo di carcere per insider trading.
(Pubblicato su Gli Italiani)
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