mercoledì 24 ottobre 2012

Riforme si riforme no



Riforme si, riforme no. E' un'equazione ricca di incognite quella che tormenta politologi ed esperti di Cina a pochi giorni dal XVIII Congresso nazionale, in agenda per l'8 novembre, evento che sancirà il rimpasto ai vertici del Partito. Una nuova generazione di leader -la quinta- impugnerà le redini del Paese, mandando in pensione l'attuale presidente, nonché Segretario generale del Pcc, Hu Jintao e il primo ministro Wen Jiabao. Al loro posto -salvo improbabili imprevisti- saliranno al potere Xi Jinping e Li Keqiang, rispettivamente vice-presidente e vice-premier. E se i nomi dei due eredi sono già noti da tempo molto meno lo sono le loro inclinazioni politiche. Sarà Xi il capo in grado di traghettare il Dragone sulla strade delle riforme politiche ed economiche, riuscendo dove il duo Hu-Wen ha fallito?

I natali farebbero ben pensare: il leader in pectore è, infatti, un "principe" dell'aristocrazia rossa. Figlio di Xi Zhongxun, uno dei protagonisti della rivoluzione, epurato da Mao Zedong e noto per essere un liberale. Ha sperimentato sulla propria pelle gli esiti catastrofici della rivoluzione culturale. "Il suo passato di sofferenze lascia immaginare che Xi si distinguerà come il politico dalla parte del popolo. Ed effettivamente la stessa opinione pubblica si aspetta che il vice presidente segua le orme del padre, il quale una volta riabilitato non solo si rese determinante nella realizzazione delle riforme economiche, ma non esitò a manifestare più volte la sua opposizione alla soppressione delle rivolte studentesche di Tian’anmen del 1989" si legge in una sua biografia tradotta parzialmente dal New York Times alcuni mesi fa.

Secondo il quotidiano americano, "diverse persone orbitanti attorno alla figura di Xi stanno sollecitando il Partito ad adottare politiche più liberali per riottenere la legittimità di cui godeva quando era ancora una forza rivoluzionaria. L'espulsione di Bo Xilai, (l'ex segretario di Chongqing ndr) che corteggiò conservatori e maoisti prima di cadere in disgrazia, ha incoraggiato i liberali a richiedere agli attuali leader di adottare cambiamenti sistematici." Proprio questo mese Hu Shuli, influente giornalista cinese, ha condiviso la recente ventata di ottimismo pubblicando sulla sua rivista Caixin un articolo dal titolo Bo Xilai un catalizzatore per le riforme politiche.

Come si evince da un editoriale pubblicato lunedì su Study Times -rivista della Scuola centrale del Pcc- Xi, con il placet dell'ex presidente Jiang Zemin, avrebbe supervisionato una squadra di ricerca per studiare "il modello Singapore", il quale prevede un pensiero e politiche economiche più liberali mantenendo un regime a partito unico. Quello che, utilizzando un ossimoro, viene definito "autoritarismo liberale". Voci incoraggianti circolano tra le stanze del potere -come sostenuto da Wu Si, caporedattore della rivista Yanhuang Chunqiu- circa "un avvio delle riforme politiche" una volta concluso il Congresso.

Suggerimenti, questi, da maneggiare con cautela. Troppa enfasi è stata posta sul riformismo "innato" del futuro numero uno della Repubblica popolare. Non scordiamoci che anche Hu Jintao quando assunse la presidenza nel 2003 fu accolto da aspettative eccessive -col senno di poi- disattese. Che se lo ricordino sopratutto gli analisti occidentali e i cinesi liberali inebriati dall'euforica ricerca di un Gorbaciov d'oltre Muraglia. Dieci anni fa si credette di averlo trovato con Hu. Oggi gli addetti ai lavori sono un po' meno entusiasti, tanto da aver soprannominato gli anni di governo del presidente uscente "il decennio perduto". Alcuni mesi fa un anonimo funzionario del Partito si sarebbe, addirittura, spinto a definire Hu "il peggior leader dal 1949". Volendo essere meno severi: l'unica vera riforma introdotta nel suo periodo di mandato consiste "nell'abolizione delle tasse per i contadini", sottolinea sul suo blog Beniamino Natale, corrispondente per l'Ansa a Pechino "si pensava sarebbe stata seguita da altre, perlomeno dall'abolizione dell' 'hukou', il permesso di residenza inventato dai maoisti per controllare i movimenti di popolazione. Invece, niente."

Alcuni segni
Un segno mette in evidenza come il Pcc non sia poi tanto intenzionato a spingere sul pedale dell'innovazione: l'estromissione di Wang Yang dalla corsa verso il Comitato permanete del Politburo, il Gotha cinese che quest'anno -secondo alcune indiscrezioni- potrebbe essere ridotto da 9 a 7 membri. Stando ad alcune fonti della Reuters, il capo del partito del Guangdong, noto per essere uno "coraggioso, liberale, con una mentalità da leader moderno", non rientrerà nel sancta sanctorum del Partito post Congresso perché considerato "troppo riformista".

Ma, con tutta la prudenza del caso, la Cina di fine 2012 sembra essere molto più denghiana che maoista. Come la stampa internazionale si è affrettata a sottolineare martedì, il mancato riferimento al Grande Timoniere in un recente documento del Politburo -traboccante, invece, di citazioni di Deng Xiaoping e Jiang Zemin- indurrebbe a pensare che sia giunto il momento di scrollarsi di dosso l'eredità scomoda del fondatore della Repubblica popolare, oggi riflesso nell'immagine del corrottissimo Bo Xilai. Una proposta di modifica della costituzione che richiama al "socialismo con caratteristiche cinesi" di Deng -il padre dell'apertura politica ed economica- ma che ignora il pensiero di Mao, è stata interpretata da molti come una stoccata diretta alla Nuova Sinistra, ancora schierata dalla parte del defenestrato Bo. Se sia anche da leggere come una dichiarazione d'intenti (riformisti) è troppo presto per dirlo.

Quali riforme?
Se le riforme arriveranno, difficilmente saranno in senso democratico. L'interesse delle frange riformiste del Pcc è tutto proiettato verso una robusta revisione/manutenzione del "modello Cina": la formula alchemica a base di capitalismo di Stato che negli ultimi 10 anni ha assicurato all'economia del Dragone una crescita a due cifre, ma che ormai ha rivelato tutti i suoi limiti. Da luglio a settembre il Pil della Cina e' sceso al +7,4% contro il +7,6% del secondo trimestre e il +8,1% del primo.
E se le riforme arriveranno, con ogni probabilità a fare le spese saranno i " grandi monopoli", secondo una strada auspicata e tracciata dal premier Wen Jiabao. Sarà, quindi, una riforma delle banche per impedire loro di versare finanziamenti esclusivamente alle aziende statali, incentivando l'ingresso di capitali privati e smembrando i colossi di Stato, colpevoli di ingolfare il sistema economico. Una ristrutturazione, sino ad oggi, fortemente contrastata dal deposto Bo Xilai e da alcuni falchi a lui vicini.



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