mercoledì 26 giugno 2013

Palingenesi con caratteristiche cinesi

(Aggiornamento del primo luglio: nuovi dettagli sulla critica di Hu Dehua a Xi Jinping)

No a formalismo, burocratismo, lassismo e stravaganze. La settimana scorsa il presidente cinese Xi Jinping è tornato a strigliare i ranghi del Partito annunciando una campagna anti-stravaganze della durata di un anno che appare come un chiaro prosieguo degli sforzi messi in atto contro la corruzione fin dai primi giorni del suo mandato come Segretario generale del Pcc.

Nella giornata di ieri un ulteriore appello ai venticinque "compagni" del potente Politburo perché assumano l'iniziativa nel "mantenere l'autorità del Comitato centrale del Partito e siano con esso fortemente in accordo quanto a pensiero, politiche e azioni". Non senza esimersi dall'effettuare "critiche amichevoli e oneste, nonché autocritiche per tenere uniti i compagni". Il tutto precedentemente concentrato in uno slogan sibillino decriptato dallo stesso Xi lo scorso 18 giugno in occasione di un meeting di alto livello: "Guarda nello specchio, tieniti in ordine, pulisci il tuo corpo, e cura la malattia".

Nella sua lotta contro "mosche e tigri", ovvero funzionari e quadri a livello locale corrotti, il neo-presidente ha fatto ampio uso di una serie di termini presi in prestito da Mao Zedong, il cui vocabolario sembra essere ancora in auge a Zhongnanhai, il Cremlino cinese. Ma, sebbene la retorica sia simile, in Xi manca l'enfasi verso lo studio e la lettura dei testi teorici tipica dell'era maoista, mentre l'"azione" prevale su tutto, ha spiegato al South China Morning Post Li Chengyan, professore dell'Università di Pechino. Per Russel Leigh del Beijing Center for Chinese Studies, manca il nucleo centrale della strategia del Grande Timoniere: la lotta di classe e l'identificazione di nemici politici, concetti che oggi apparirebbero più che obsoleti e inconciliabili con il mantra delle "tre rappresentatività".

Che quella di Xi non sia una svolta radicale verso l'estrema sinistra -pericolosamente vicina al deposto Bo Xilai- lo dimostrerebbe l'appello con il quale martedì ha invitato i membri del Politburo a studiare la storia del Partito e del Paese al fine di sviluppare ulteriormente il concetto di "socialismo con caratteristiche cinesi", slogan che ha al suo centro riforme di mercato e apertura.

Non è certo la prima volta nella storia del Partito comunista cinese che l'establishment tenta di debellare la corruzione interna. Ancora prima che la Repubblica popolare vedesse la luce, nel 1942, diversi membri del Pcc vennero etichettati come "controrivoluzionari", "traditori" e "spie" nell'ambito di una campagna volta a consolidare la leadership sotto la guida di Mao. Anche allora si parlò di "autocritica" e di "curare le malattie".

Poco dopo la fondazione della Rpc, una seconda stretta si tradusse nell'espulsione di 320mila membri del Partito e nel reclutamento di oltre un milione di nuovi "compagni", mentre tra il 1957 e il 1959 a finire nel tritacarne furono gli elementi di destra, critici verso il modello di collettivismo di stampo sovietico, il leninismo e il marxismo-leninismo. Avvertiti come un minaccia per la dittatura del Partito unico, circa 500mila intellettuali furono perseguitati; alcuni di loro persero la vita prima che la Rivoluzione Culturale terminasse nel 1977.

Ultima in ordine di tempo, l'opera di pulizia lanciata da Deng Xiaoping, l'architetto delle riforme economiche che tra il 1983 e il 1987 si adoperò per sradicare la Banda dei Quattro, la cricca guidata dalla moglie di Mao ai tempi della Rivoluzione Culturale. Un preludio alla "politica della porta aperta". (Fonte: Global Voices)

Xi Jinping ha dunque una lunga serie di precedenti dai quali trarre spunto o allontanarsi. Per il popolo di Weibo, il Twitter cinese, la panacea di tutti i mali risiede nella democrazia, nella partecipazione dei cittadini e nello Stato di diritto. Basta voltare lo sguardo indietro per vedere l'inutilità delle campagne anti-corruzione, artefici di ferite storiche mai rimarginate e incapaci di conservare la moralità del Partito immacolata.

Pechino dovrebbe imparare dagli errori commessi. Esattamente come ha fatto Taiwan con gli eventi del 1947, anno in cui il Guomindang uccise decine di migliaia di manifestanti anti-governo in una sanguinosa resa dei conti. L'incidente, rimasto tabù per decenni, viene oggi commemorato ogni 28 febbraio come festa nazionale. Il consiglio questa volta giunge dai piani alti: Hu Dehua, figlio di quel Hu Yaobang alleato di Xi Zhongxun, il padre di Xi Jinping, e la cui morte innescò le proteste dell''89, si è dimostrato fortemente critico verso le posizioni assunte dal nuovo "timoniere" colpevole di aver affermato all'inizio dell'anno che "la Cina non può utilizzare la sua storia post-riforme per rinnegare quanto accaduto precedentemente". Un assunto che -come si legge in un discorso informale pronunciato da Hu a febbraio e rimbalzato sul web solo di recente- equivale a confermare le accuse con le quali il suo stesso padre fu bollato come "controrivoluzionario" e incarcerato, per poi essere riabilitato soltanto nel 1975.

Secondo l'accademico indipendente Chen Ziming, sarebbero diverse le voci controcorrente ad agitare la fazione dei "principini", gli eredi degli eroi della Rivoluzione comunista, di cui Hu e Xi fanno parte. Tra questi Chen Xiaolu, figlio di Chen Yi che fu vice-ministro sino alla morte (1972) e Ma Xiaoli, figlia di Ma Wenrui ex-politico della provincia dello Shaanxi. Molti allo, stesso tempo, dimostrano incondizionatamente il loro appoggio a chiunque abbia il potere nella speranza di trarre benefici economici. Proprio questi ultimi potrebbero non gradire le manovre di Xi Jinping, sempre più incline a  riconquistare la fiducia delle masse andando a colpire le mele marce e i gruppi d'interesse che in Cina si annidano nelle grandi società di Stato. E' sostanzialmente dalla loro capacità di rinuncia che dipende il corso futuro del Paese.

(Leggi anche: I "cento fiori" di Xi: tra apertura e repressione; In Cina la crisi si chiama corruzione)



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