sabato 7 dicembre 2013

Nessun divorzio tra Cina e Usa per l'ADIZ


(Aggiornamento dell'8 dicembre: la Corea del Sud ha annunciato di aver espanso la propria zona di difesa aerea, che così si va sovrapporre a quella precedentemente stabilita dalla Cina. Ora le ADIZ di entrambi i paesi abbracciano le isole Ieodo/Suyan. Il Giappone ha fatto sapere di non avere "problemi immediati" con la manovra di aggiustamento di Seul, la prima dal 1951, anno in cui fu istituita dalle forze armate americane al tempo della guerra di Corea. Ancora dura invece la linea tenuta da Tokyo nei confronti dell'ADIZ cinese, con il ministro della Difesa Onudera che ha richiesto l'intervento della comunità internazionale.

Non sono mancate certo le belle parole. Nella sua due giorni pechinese il vice presidente americano Joe Biden ha parlato di "nuove relazioni" tra due grandi potenze, rimarcando l'esigenza di "fiducia" e "franchezza" tra le parti. Ma non ha neppure mancato di condannare come "atto provocatorio" l'istituzione della zona di identificazione e di difesa aerea cinese, annunciata al mondo (senza preavviso) dal ministero della Difesa il 23 novembre scorso.

L'ultima manovra militare è valsa a Pechino le critiche dei vicini asiatici, impensieriti da quella che è stata letta da più parti come il campanello d'allarme di una crescente assertività nella regione. E non sono servite a molto le spiegazioni ufficiali del dicastero cinese: a partire dagli anni 50 del secolo scorso, più di 20 paesi -tra i quali Stati Uniti e Giappone- si sono dotati di una loro ADIZ in cui viene richiesto la localizzazione, l'identificazione e il controllo dei velivoli nell'interesse della sicurezza nazionale, ha immediatamente chiarito l'agenzia di stampa Xinhua. Il concetto è stato poi ripreso e amplificato in un editoriale dell'oltranzista Global Times dal titolo eloquente "L'ADIZ ridurrà la tensione nel Mar Cinese Orientale", ad affermare come l'Air Defense Identification Zone non ha lo scopo di innescare una crisi nell'area, quanto piuttosto quello di evitarla attraverso un meccanismo di controllo preventivo.

Parole rimbalzate contro un muro di gomma. Fin da subito Washington ha annunciato che non si sarebbe attenuta alle procedure di identificazione richieste, ribadendo il concetto dopo alcune ore inviando nell'ADIZ (senza comunicarlo a chi di dovere) due B-52 per un'esercitazione già in programma, salvo poi ordinare a tutti gli arerei di linea a stelle e strisce di consegnare i piani di volo al governo cinese per ragioni di sicurezza. In barba agli ordini cinesi, anche diversi aerei giapponesi, sudcoreani e taiwanesi hanno attraversato la ADIZ senza rispettare le richieste di Pechino.

Come rammenta il quotidiano nazionalista, nel secondo trimestre di quest'anno i jet giapponesi hanno interferito con le normali operazioni dei velivoli cinesi 69 volte. Nello stesso periodo dello scorso anno incidenti simili si erano verificati solo 15 volte.

"Lo spazio di identificazione aerea non è una no-fly zone. La Cina ha sempre rispettato la libertà di volo di tutti i paesi purché osservino il diritto internazionale e siano identificabili dalla direzione della ADIZ" spiega il Global Times. D'altra parte, come messo in risalto da Bonnie Glaser su Asia Times, la Repubblica popolare starebbe cercando di far rispettare delle regole che differiscono da quelle standard, chiedendo ad ogni aeromobile che attraversi la zona di fare rapporto indipendentemente dalla destinazione finale. Giappone e Stati Uniti hanno sì le loro ADIZ, ma esigono i piani di volo soltanto da quei velivoli che hanno intenzione di passare per lo spazio aereo nazionale. Inoltre l'Air Self Defense Force nipponica non riceve mai direttamente informazioni sui piani di volo degli aerei civili, ma bensì attraverso il Ministero della Terra delle Infrastrutture, dei Trasporti e del Turismo.

Ma c'è dell'altro a rendere le richieste di Pechino particolarmente indigeste: la nuova Air Defense Identification Zone va a sovrapporsi a quelle di Giappone e Corea del Sud, finendo per includere le famigerate isole Diaoyu/Senkaku, da diverse decadi oggetto del contendere tra Dragone, Sol Levante e Taiwan, e tornate sotto la lente d'ingrandimento dopo la nazionalizzazione da parte del governo nipponico nel settembre 2012. Poco più di pugno di scogli finito nelle mire dei giganti asiatici negli anni 60 per via delle risorse naturali nascoste nei fondali limitrofi e coperte da un trattato di sicurezza tra Tokyo e Washington, ai sensi del quale una eventuale difesa delle isole da parte dei giapponesi può obbligare gli Stati Uniti a fornire loro sostegno militare.

I timori che le periodiche schermagli si trasformino in un conflitto tra Cina e Giappone non fanno dormire sonni tranquilli all'Aquila, gendarme del Pacifico dalla seconda guerra mondiale e,-dopo la fitta agenda mediorientale- nuovamente tutta proiettata verso l'Estremo Oriente, come richiesto dal "pivot" di Obama: oggi le truppe Usa contano 52mila unità in Giappone e 28mila in Corea del Sud.
Un articolo del New York Times, datato 3 marzo 1972, rivela come già allora il governo di Tokyo facesse pressione perché Washington assumesse una posizioni (militarmente) più decisa sulle Diaoyu/Senkaku, inviando imbarcazioni armate della guardia costiera.

Eppure le frizioni tra i cugini asiatici, come d'altra parte le provocazioni belliciste nordcoreane, danno il pretesto agli Usa per una presenza più massiccia nella regione, motivo di allarme per Pechino che si vede principale destinatario dell'abbraccio soffocante di Washington. Allora ecco che qualche dubbio è più che lecito: "Perché gli Stati Uniti non hanno definito 'azioni unilaterali' quelle dell'establishment giapponese, che nel 1969 ha stabilito la sua ADIZ, includendo le Diaoyu cinesi, e ha poi proceduto alla loro nazionalizzazione?" si chiede il Global Times.

Il commento di Alessandro Lattanzio, gestore del sito di geopolitica Aurora, redattore di Eurasia e presidente dell'Istituto Mediterraneo per la democrazia Diretta: Il "Pivot", o "riequilibrio" dell'amministrazione Obama, cerca di consolidare una rete di alleanze, partnership strategiche e basi militari in tutta l'Asia, dalla Corea del Sud  e Giappone al Sud-Est asiatico, all'Australia, all'Asia meridionale e centrale. Lungi dal porre un cuneo tra Giappone e Stati uniti, Washington ha colto l'ADIZ cinese per rafforzare i legami militari con il Giappone e fare pressione su Pechino. La Corea del Sud, che la Cina corteggiava, s'è agitata fortemente cotro Pechino e si oppone all'ADIZ cinese, che comprende uno scoglio sommerso (noto come Ieodo in Corea e Sunyan in Cina) rivendicato da Seul.

Sarebbe dunque un errore valutare la disputa per gli atolli del Mar Cinese Orientale come una semplice questione energetica. Il controllo delle isole e delle zone marittime di influenza esclusiva è stato definito da Pechino di interesse fondamentale (core interest), un concetto, fino a qualche tempo fa, utilizzato soltanto per il Tibet e lo Xinjiang, le due province polveriera all'estremo Ovest della Repubblica popolare. Ogni ingerenza straniera sui core interest viene considerata dal Dragone un'intrusione negli affari propri.

Questo è il pesante fardello che Biden ha portato con sé nella capitale cinese, tappa intermedia di una trasferta asiatica che lo ha visto prima in Giappone e poi in Corea del Sud. Così se nei piani iniziali le tematiche chiave dovevano essere il nucleare di Pyongyang e gli scambi commerciali tra i vari attori dello scacchiere Asia-Pacifico, alla fine a tenere banco pare sia stata proprio la zona di identificazione aerea cinese. Accolte le proteste di Tokyo ("Parlerò ai leader cinesi della questione con estrema specificità", aveva promesso"), giunto al cospetto di Xi Jinping -il presidente cinese ritratto dall'Economist negli abiti imperiali di un novello Qianlong per via delle sue ambizioni nazionalistiche- Biden ha assunto una posizione molto più conciliante. In quell'incontro durato ben due ore, rispetto ai 45 minuti inizialmente previsti, Biden ha rinnovato le preoccupazioni di Washington circa la ADIZ senza tuttavia riuscire a strappare alcuna concessione da Xi. Da questo "fallimento" traspare tutta la difficoltà americana nel mediare tra l'alleato, guidato dalla destra di Shinzo Abe, e una Cina al cui timone siede una leadership che soffia sempre più spesso sul fuoco del nazionalismo per distogliere il popolo dalle numerose distorsioni sociali, spina nel fianco del Paese. Con il rischio che le fiamme si propaghino in un incendio, data la facilità con la quale i sentimenti nazionalistici attecchiscono tra i giovani cinesi, sopratutto attraverso il web. E ne è prova la reazione accorata degli internauti, indignati per la risposta troppo tiepida di Pechino alle intrusioni aeree di questi giorni.

In conferenza stampa, come sottolineato dalla Reutersné Biden né Xi Jinping fanno menzione della ADIZ cinese. Si parla invece molto di "sincerità" e "fiducia", fattori imprescindibili nel rapporto tra la prima e la seconda potenza mondiale, in un contesto di crescenti sfide internazionali sulle quali oggi Pechino e Washington si trovano a discutere da pari a pari. La partecipazione più che attiva del Dragone all'accordo sul nucleare iraniano e ad un riavvicinamento tra Israele e Palestina mostrano chiaramente la volontà della Cina di assurgere a player globale. Quanto al valore dell'asse Pechino-Washington basti pensare che nel 1985 il commercio tra i due paesi valeva solo 7,7 miliardi di dollari. Nel 2000, la cifra è salita a 116 miliardi, nel 2012 ha raggiunto i 536 miliardi di dollari, il che mette gli Usa e la Cina nella posizione di creare il più grande rapporto commerciale della storia. La cautela adottata nell'ultima visita dal vicepresidente Usa è una conferma di quel "matrimonio", coronato all'inizio dell'estate dal meeting di Sunnylands tra Obama e Xi, che non ammette divorzio. Sopratutto se a causare lo strappo è un "alterazione unilaterale dello status quo" che gli Usa hanno messo in atto per primi nel 1950.









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