martedì 17 aprile 2018
In Cina e Asia
Weibo fa marcia indietro sull’omosessualità
I contenuti gay-friendly pubblicati sul noto social cinese non verranno rimossi come precedentemente minacciato. In un raro dietro-front, il Twitter cinese Weibo lunedì ha deciso di rimuovere l’omosessualità dai topic soggetti a censura. La campagna che durerà tre mesi coinvolgerà soltanto video e cartoni dai contenuti violenti e pornografici. La decisione arriva dopo giorni di proteste online condotte prevalentemente sotto l’hashtag “iosonogaynonpervertito”, che ha conquistato 1,35 milioni di visualizzazioni. Non sono nemmeno mancati appelli volti a boicottare le azioni di Sina Weibo, quotata al Nasdaq. Giustificando la discussa campagna, l’azienda aveva spiegato di volersi uniformare alla direttiva governativa che lo scorso giugno ha rubricato l’omosessualità — decriminalizzata nel 1997 e rimossa dalle malattie mentali nel 2001 — tra i “comportamenti sessuali anormali”. Per le associazioni LGBT l’inversione a U di Weibo è il chiaro segno di come le pressioni popolari possano fare la differenza anche in un paese totalitario come la Cina, dove internet, nonostante la censura, è uno dei pochi canali d’espressione per chi non ha il coraggio di fare coming out nella vita reale.
Economia cinese più autonoma. Ma l’export verso gli Usa è in crescita
L’economia cinese continua a registrare tassi di crescita inaspettati. Nei primi tre mesi del 2018 l’economia si è espansa a un ritmo del 6,8%, più del 6,5% pronosticato complessivamente per l’anno in corso. Le ultime cifre mostrano che le esportazioni verso gli Stati Uniti stanno crescendo molto più rapidamente dell’import cinese di beni americani. Ciò potrebbe inasprire le frizioni con Washington, determinato a imporre 150 miliardi di dollari di tariffe sui prodotti made in China. Al contempo, mentre il gigante asiatico ha registrato un raro deficit commerciale a marzo, il surplus con gli Stati Uniti ha raggiunto un nuovo record di 58 miliardi di dollari nel primo trimestre. Questo vuol dire che il piano con cui Trump conta di ridurre il disavanzo di 100 miliardi rischierebbe di incidere pesantemente sulla performance del Dragone, nonostante la crescente autosussistenza dell’economia cinese. Secondo il Council on Foreign Relations, la Cina ormai produce entro i propri confini quattro quinti del valore per ogni dollaro di export, rispetto ai due terzi del 2011.
I dati economici giungono a poche ore dall’annuncio da parte del Dipartimento del Commercio americano del divieto a tutte le aziende statunitensi di vendere componenti al colosso cinese della telefonia ZTE, accusato in passato di rifornire l’Iran in barba alle sanzioni. Nel 2012 il Congresso ha definito ZTE e Huawei un pericolo per la sicurezza nazionale.
Taiwan ha “un piano” d’indipendenza
Lo ha annunciato domenica il premier William Lai durante una tavola rotonda nella contea di Hualien in cui ha chiarito alcune recenti affermazioni filoindipendentiste. Secondo la sua tabella di marcia il processo di separazione dalla Cina si baserebbe su tre principi: il fatto che Taiwan sia già uno stato di fatto sovrano e che Pechino non abbia mai esercitato il suo dominio sull’isola; che solo i 23 milioni di taiwanesi hanno il diritto e la legittimità di decidere il futuro dell’isola; e che una Taiwan più prospera e vivibile implica l’ottenimento di un sostegno esterno nella sua ricerca di piena indipendenza. Il primo ministro ha inoltre accennato alla necessità di mantenere rapporti costanti con Giappone, Stati uniti e Corea del Sud per difendere la stabilità dell’Asia Pacifico. Il pressing indipendentista giunge a pochi giorni dalla formazione della Formosa Alliance — di cui fanno parte gli ex presidenti Lee Teng-Hui e Chen Shui-Bian — il cui principale obiettivo è indire un referendum volto a sancire la separazione de jure dalla mainland. Il dibattito politico sull’isola coincide con un periodo di crescenti tensioni con Pechino, acuite dalle manovre filotaiwanesi all’interno dell’amministrazione Trump. Il 18 aprile la marina cinese riaffermerà la sua sovranità su Taiwan con le prime esercitazioni nello Stretto da quando Tsai Ing-wen ha assunto il potere.
Primo rimpatrio dei rohingya: “è propaganda”
Propaganda. E’ così che Bangladesh e Nazioni Unite hanno definito lo sbandierato rimpatrio dei primi cinque rohingya accolti dalle autorità birmane nella giornata di sabato. La famiglia si troverebbe ora in uno dei centri di accoglienza apprestati da Naypyidaw per far fronte al ritorno degli sfollati fuggiti in Bangladesh dopo le violenze innescate lo scorso anno hanno dagli scontri tra l’esercito birmano e presunti terroristi musulmani di etnia rohingya. A ciascuno dei cinque è stata assegnata una “National Verification Card”: un documento d’identità temporaneo che non certifica la cittadinanza birmana dei rifugiati riaccolti, in linea col rifiuto di considerare i Rohingya cittadini birmani in vigore nel Paese a maggioranza buddista dal 1982. Un accordo stipulato tra Dhaka e Naypyidaw a gennaio stabilisce il rimpatrio — volontario — in due anni dei rifugiati nei campi profughi bangladeshi. Ma da allora incomprensioni tra i due paesi hanno gettato il processo in una fase di stallo. Il governo del Bangladesh ha preso le distanze affermando di non essere in grado di appurare la volontarietà del rimpatrio dal momento che i rifugiati non sono mai entrate formalmente in territorio bangladeshi, rimanendo nella “terra di nessuno” che divide i due paesi. Solo alcuni giorni fa il UNHCR aveva affermato che le condizioni nello stato Rakhine non sono ancora adeguate ad ospitare un ritorno dei fuggiaschi.
Shinzo Abe verso Mar-a-Lago
Il primo ministro giapponese quest’oggi raggiungerà il presidente americano Donald Trump in Florida per discutere di questioni commerciali e della Corea del Nord, in un momento in cui entrambi i leader sono travolti da scandali interni. I due si sono già visti sei volti e sentiti per telefono altre 20. Secondo lo Yomiuri Shimbun, Tokyo presenterà un nuovo quadro entro il quale avviare i colloqui per un rientro di Washington nella TPP, possibilità ventilata da Trump nel caso in cui si riesca a formulare un accordo più vantaggioso per gli Stati uniti. Il testo approvato lo scorso anno dagli 11 superstiti congela alcune delle clausole di interesse americano ed è probabile che una marcia indietro della prima economia mondiali implichi una rinegoziazione dei termini su questioni chiave come proprietà intellettuale e settore automobilistico. Idea che non sembra entusiasmare i vari firmatari, ma su cui Trump conta di ottenere l’appoggio nipponico attraverso contrattazioni preliminari per un trattato bilaterale di libero scambio.
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