giovedì 12 gennaio 2017

Jack Ma incontra Trump


Politicamente scorretto e a corto di doti diplomatiche, si sa, Donald Trump è soprattutto un uomo d’affari. È così che dopo aver aspramente criticato le politiche commerciali cinesi, dopo aver minacciato l’imposizione di una tariffa del 45 per cento sul Made in China e dopo aver indispettito Pechino instaurando un canale di comunicazione diretto con Taiwan, il 45esimo presidente americano ha fiutato l’occasione propizia per far pace con il business d’oltre Muraglia.

La svolta è arrivata lunedì, durante un meeting con il fondatore di Alibaba Jack Ma, primo imprenditore cinese ad aver incontrato il presidente eletto. Accolto nella Trump Tower, nel cuore di New York, il fondatore del colosso dell’e-commerce cinese ha invitato un milione di piccole imprese americane a sfruttare la piattaforma per raggiungere il mercato cinese. Secondo quanto riportato alla stampa internazionale dal portavoce di Alibaba Bob Christie, la nuova sinergia – che strizza l’occhio soprattutto alle imprese agricole e dell’abbigliamento del Midwest – dovrebbe fruttare agli States un milione di posti di lavoro in cinque anni, confutando coi fatti le accuse mosse dal candidato repubblicano in campagna elettorale contro il gigante asiatico e la sua manodopera a basso costo, nefasta per il mercato del lavoro statunitense. Un’iniziativa che parrebbe ricalcare l’offerta con cui a dicembre il businessman giapponese Masayoshi Son di Japan’s Softbank Group ha adulato «The Donald», promettendo alla prima economia mondiale 50 miliardi di investimenti e 50mila nuovi impieghi.

Sebbene i dettagli scarseggino, il faccia a faccia di lunedì sembra aver soddisfatto un po’ tutti. Se per Trump si è trattato di «un grande incontro», foriero di fruttuose collaborazioni, per il «golden boy» della new economy cinese il meeting si è rivelato «molto produttivo». «Abbiamo parlato soprattutto di piccole attività commerciali, dei giovani e dei prodotti agricoli americani in Cina. Pensiamo anche che il rapporto tra la Cina e gli Stati Uniti dovrebbe essere rafforzato, dovrebbe essere più amichevole», ha dichiarato il secondo uomo più ricco dell’ex Celeste Impero, attribuendo al nuovo inquilino della Casa Bianca gli aggettivi «smart» e «open minded». Osservazioni speranzose anche da parte della stampa di Partito, secondo la quale il meeting «apre le porte a una cooperazione pragmatica con le imprese cinesi», dopo le turbolenze degli ultimi mesi.

Alla fine di dicembre, quattro anni dopo essere stato riabilitato, Taobao (la divisione di Alibaba che permette ai privati di vendere da privati) è stato reinserito della black list statunitense dei siti che favoriscono lo scambio di prodotti falsi, nonostante gli sforzi messi in campo dalla società per combattere la pirateria. Un brutto colpo per il gigante cinese che dopo aver ampliato il suo quartier generale nella Grande Mela, sta tentando di incrementare la propria presenza oltre Muraglia attraverso iniziative commerciali quali il Singles’ Day, sorta di Black Friday «in salsa di soia». Commentando l’inaspettato trionfo di Trump alle presidenziali, giorni fa Ma aveva definito la possibilità di una rottura tra Pechino e Washington «un disastro». In attesa di assumere formalmente l’incarico il prossimo 20 gennaio, «The Donald» ha riempito la sua squadra di falchi noti per le loro posizioni allarmiste nei confronti dell’ascesa cinese, da Peter Navarro, posto a capo del National Trade Council, a Robert Lighthizer, nuovo Trade Representative.

Eppure il benessere delle due superpotenze è sempre più interconnesso: gli scambi virtuosi tra le due sponde del Pacifico nel 2015 hanno raggiunto quota 659,4 miliardi di dollari, mentre l’anno appena concluso ha visto gli investimenti cinesi negli Stati Uniti toccare un nuovo record. Tra acquisizioni e nuovi stabilimenti, il gigante asiatico ha iniettato nel mercato a stelle e strisce 45,6 miliardi di dollari, quasi la metà dei 109 miliardi complessivi stanziati dal 2000. Non a caso le politiche protezionistiche vagheggiate dal biondo tycoon hanno sinora incontrato le resistenze della comunità del business statunitense, convinta che un inasprimento delle tariffe finirebbe soltanto per gravare sulle tasche dei consumatori americani. Secondo quanto affermato al Global Times da Bai Ming, ricercatore della Chinese Academy of International Trade and Economic Cooperation, la retorica anticinese di Trump è servita principalmente a conquistare l’elettorato americano e, forse, a strappare qualche concessione nei futuri negoziati commerciali con Pechino. Ma in fondo Trump «è un uomo d’affari e se vede un’opportunità per l’economia americana, non se la lascia certo sfuggire».

(Pubblicato su China Files/Il Fatto quotidiano online)
 

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