Le accuse - che non tengono conto di diverse variabili (per citarne una, parte del Made in China viene prodotto oltre la Muraglia attraverso l'assemblaggio di componentistica proveniente in realtà da altri paesi, Usa compresi) - rievocano le minacce con cui Trump ha scandito i mesi precedenti alla vittoria. Si era parlato dell'imposizione di una tariffa del 45% sulle importazioni dalla Repubblica popolare, che secondo gli esperti porterebbe ad un crollo dell'export cinese verso gli Stati Uniti dell'87%. Una promessa che per il momento, tuttavia, non rientra tra le molte mantenute a partire dall'Inaguration Day: progressivo smantellamento della Trans-Pacific Partnership e degli accordi di Parigi in primis. Le avvisaglie delle ultime ore non sono ugualmente buone.
Venerdì l'Office of the United States Trade Representative - diretto da Robert Lighthizer e controllato dalla Casa Bianca - ha rilasciato la lista annuale in cui vengono enumerate le barriere commerciali attuate da 63 paesi. Nella fattispecie cinese, l'USTR cita la cronica sovracapacità industriale nei settori dell'alluminio e dell'acciaio (che riversano il proprio surplus sui mercati esteri facendo crollare i prezzi), il trasferimento di tecnologia estera alle società locali, cui si aggiunge il divieto sulle importazioni di manzo americano e sulla fornitura di servizi di pagamento online. Sul banco degli imputati siede il progetto "Made in China 2025", visto dagli esperti internazionale come un tentativo di nazionalizzare dieci industrie chiave (dalla robotica alla farmaceutica biologica) e limitare drasticamente il margine di manovra delle aziende straniere nel paese asiatico.
Nella giornata di venerdì Trump firmerà due ordini esecutivi: il primo per la realizzazione di un massiccio report per individuare "ogni forma di abuso commerciale e ogni pratica non reciproca alla base del deficit commerciale". Il secondo si concentrerà sul potenziamento della raccolta di dazi antidumping contro i governi stranieri colpevoli di sovvenzionare i propri prodotti in modo da rivenderli sotto costo. Sebbene, come si è affrettato a specificare il Segretario al Commercio Wilbur Ross, la Cina non sia il destinatario ufficiale della controffensiva trumpiana, le contingenze inducono ad altre conclusioni.
Appena pochi giorni fa, il U.S. Commerce Department ha avviato un'indagine per stabilire se la Cina debba essere trattata come un'economia di mercato o meno. Quella dell'attribuzione del mes (status di economia di mercato) alla Cina è una questione che da mesi pesa sulle relazioni tra Pechino, Stati Uniti e Unione europea. Il gigante asiatico reclama lo status in virtù di quanto stabilito nel 2001 al momento del suo ingresso della World Trade Organization. L'essere considerata una non-market economy costa alla Repubblica popolare l'imposizione di tariffe più gravose. Seconda l'ultima revisione risalente al 2006, la Cina non soddisfaceva ancora nessuno dei sei criteri necessari all'ottenimento del mes.
Mentre i recenti sviluppi gettano tinte fosche sulla prima trasferta statunitense di Xi Jinping, la Cina continua mantenere una linea insolitamente composta, privilegiando un approccio quasi di "studio" nei confronti della nuova imprevedibile amministrazione a stelle e strisce. Rispondendo alle minacce delle ultime ore, il viceministro degli Esteri Zheng Zeguang ha dichiarato in conferenza stampa che la Cina non persegue volontariamente i disequilibri commerciali e il modo migliore per risolverli è quello di aprire ulteriormente gli Stati Uniti agli investimenti cinesi, così da creare posti di lavoro sul suolo statunitense.
(Pubblicato su Gli Italiani)
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