La Corea del Nord alle Olimpiadi tra pattinaggio e cheerleader
Nel pomeriggio di ieri, un rappresentante del governo nordcoreano ha formalizzato all’International Olympic Committee la decisione di Pyongyang di prendere parte alle Olimpiadi che si terranno a febbraio in Corea del Sud, come anticipato precedentemente durante l’incontro di inizio settimana tra i delegati delle due Coree. Il presidente Moon Jae-in ha proposto che gli atleti sfilino fianco a fianco durante la cerimonia di apertura. Per il presidente dell’IOC Thomas Bach, la partecipazione nordcoreana rappresenta “un grande balzo in avanti per lo spirito olimpionico”. Chi tuttavia, prenderà fisicamente parte ai Giochi non è ben chiaro. Secondo quanto affermato martedì, la delegazione del Nord comprenderà oltre agli atleti, una squadra dimostrativa di taekwondo, sostenitori, una troupe di performance artistica e funzionari di alto livello. In realtà però ad essersi qualificata è soltanto la coppia di pattinatori sul ghiaccio (Ryom Tae Ok e Kim Ju Sik), che peraltro ha superato la scadenza (30 ottobre) stabilita per le registrazioni; una mancanza che l’IOC considera rimediabile. I “due probabilmente ci saranno”, ha commentato il rappresentante nordcoreano. Non meno importante sarà la presenza delle cosiddette sostenitrici. Tutte ragazze avvenenti attorno ai 20 anni, selezionate per il loro aspetto fisico ma anche per la loro integrità ideologica. Si tratta sopratutto di studentesse universitarie e membri dell’unità di propaganda, molte delle quali con esperienza nell’annuale Arirang, i giochi di massa ginnico-artistici. In passato, le supporters sono spesso state mandate all’estero per sostenere gli atleti nordcoreani, in Corea del Sud, tuttavia, solo tre volte. Senza dubbio la più famosa di loro è una certa Ri Sol-ju, ovvero la moglie del leader Kim Jong-un.
Intanto, stando a quanto trapelato da una conversazione tra Moon e Trump, sarà il vicepresidente Mike Pence a guidare la delegazione americana alle Olimpiadi. Secondo il dipartimento di stato non ci sarà nessun incontro con i delegati del Nord. Per parte nordcoreana, si vocifera ci sarà la sorella di Kim, Kim Yo-jong, promossa a ottobre a membro del politburo del Partito dei Lavoratori.
La Cina potrebbe dire basta ai bond americani
Pechino starebbe pensando di ridurre o bloccare del tutto l’acquisto di buoni del tesoro americani. Lo rivelano fonti Bloomberg, citando la scarsa redditività dei titoli di stato Usa rispetto ad altre forme di investimento, associata al pericolo di una guerra commerciale con Washington. La scorsa estate, la Cina è tornata ad essere il principale creditore degli Stati Uniti sorpassando il Giappone. Una posizione già detenuta in passato che, si dice, le abbia permesso di “tenere in ostaggio” la prima economia mondiale e assumere una posizione di forza nelle trattative commerciali. Secondo qualcuno, la vociferata mossa potrebbe costituire un avvertimento all’amministrazione Trump, determinata a punire la Cina per presunte distorsioni di mercato con nuove tariffe e sanzioni. Ma c’è chi ritiene improbabile un cambiamento delle politiche cinese, dal momento che Pechino dipende dalle sue riserve forex per sostenere lo yuan, la sua valuta, mentre per la State Administration of Foreign Exchange cinese il report di Bloomberg non è altro che una “fake news”.
Intanto questa mattina, il ministero del Commercio cinese ha accusato Washington di protezionismo, alludendo alla bocciatura dell’acquisto di MoneyGram da parte di Ant Financia, del gruppo Alibaba, e al più recente deragliamento di un accordo tra Huawei e l’operatore telefonico statunitense AT&T Inc.
I cinesi scoprono la privacy
E’ dagli anni ’90 che Pechino vagheggia la possibilità di creare un sistema di credito sociale con cui classificare l’affidabilità di ogni singolo cittadino. Dal 2014, esiste un vero è proprio piano del Consiglio di Stato che stima nel 2020 il termine finale in cui il sistema — oggi in fase sperimentale — dovrebbe venire applicato a livello nazionale. Condizione fondamentale perché questo avvenga è che i colossi tecnologici rafforzino la loro collaborazione con le autorità nell’immane lavoro di raccolta dati. E che i cittadini cinesi continuino ad essere disinteressati alle questioni inerenti la privacy come stato fin’oggi, ovviamente. Le cose tuttavia sembrano mettersi per il verso storto. I segni di insofferenza nei confronti del Grande Fratello sono diventati palpabili. Soltanto negli ultimi giorni, Alipay è stata costretta a chiedere scusa agli user per aver “rubato” il loro consenso al rilascio dei dati personale per il cosiddetto “sistema dei crediti sociali”. A stretto giro, un gruppo per la difesa dei diritti dei consumatori ha citato in giudizio il motore di ricerca Baidu per un motivo analogo, mentre WeChat ha dovuto negare di registrare le conversazioni private dopo essere stato pubblicamente accusate da un noto tycoon cinese. Come sottolineano gli esperti, per il momento il malumore popolare è diretto sopratutto verso le compagnie che giocano sporco, anziché verso il governo. Ma per quanto ancora?
Cina: Greenpeace boccia la lotta all’inquinamento
Nonostante gli sbandierati successi ottenuti nel 2016 (ma annunciati solo pochi giorni fa) in 27 delle 31 regioni, il livello medio della concentrazione di PM2,5 a livello nazionale in tutto lo scorso anno è sceso solo del 4,5% rispetto al calo del 33% registrato nell’ultimo trimestre da Pechino, Tianjin e 26 città circostanti. Secondo l’Ong, a preoccupare è sopratutto l’aumento dell’inquinamento da ozono causato dall’incremento delle attività industriali nel periodo estivo. Inoltre mentre gli sforzi governativi si sono concentrati nello Hebei, il PM2,5 è continuato a salire in altre province come lo Heilongjiang, l’Anhui, il Jiangsu, il Guangdong lo Shanxi e il Ningxia per via dell’utilizzo del carbone e della ripresa della produzione di nei comparti dell’acciaio e di altri metalli pesanti.
L’esercito birmano dietro il massacro di 10 rohingya
Secondo un’indagine interna, tanto le forze di sicurezza quanto alcuni civili sono responsabili del massacro di 10 rohingya, accusati di fare pare dell’organizzazione armata dietro gli attacchi contro la polizia di frontiera dello scorso agosto. I dieci erano stati arrestati a settembre e sarebbero dovuti essere portati in caserma. Ma dal momento che i militari “erano troppo occupati ad attuare le misure di sicurezza nelle aree circostanti è stato deciso che i rohingya venisse giustiziati nel cimitero del villaggio” di Inn Din. Le esecuzioni sono state eseguite il 2 settembre da tre abitanti del posto con coltelli e quattro funzionari delle forze di sicurezza armati di pistole. Due dei giustizieri avrebbero agito per vendicare l’uccisione del proprio padre per mano dei militanti rohingya. Secondo il comunicato pubblicato ieri in serata, tutti i responsabili verranno puniti.
Si tratta di una rara ammissione di colpa che avvalora le critiche dell’Occidente verso il modus operandi dell’esercito nello stato Rakhine. I precedenti rapporti governativi avevano sempre scagionato le forze dell’ordine da ogni irregolarità. Il caso sembra inoltre avere a che fare con l’arresto dei due giornalisti della Reuters comparsi in tribunale ieri mattina — dopo giorni di detenzione — per rispondere all’accusa di furto di segreti di stato sulla base dell’Official Secrets Act di epoca coloniale. I due sono stati arrestati mentre indagavano proprio sulla presenza di fosse comuni nello stato Rakhine.
(Pubblicato su China Files)
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