sabato 19 dicembre 2015

Cybersovranità "con caratteristiche cinese"


E' terminata in un vortice di polemiche la World Internet Conference, incontro andato in scena nella cittadina cinese di Wuzhen (provincia del Zhejiang) dal 16 al 18 dicembre. L'evento, inaugurato da Pechino nel 2014 per discutere a livello internazionale il futuro del web, quest'anno ha attratto oltre 2000 partecipanti da più di 120 Paesi, tra cui otto leader stranieri, 50 funzionari di livello ministeriale e circa 600 nomi noti del mondo dell'imprenditoria online tra cui Microsoft, Facebook e altri giganti. Come spesso accade quando la Cina prende iniziative che riguardano il mondo dell'informazione e il rispetto delle libertà personali, non sono mancati commenti velenosi. Può il Paese con il sistema censorio più sofisticato al mondo dare lezioni di governance online? Sì, se si considerano i numeri: con 668 milioni di utenti, la Repubblica popolare è il primo mercato Internet al mondo. E se ad oggi, la web economy conta per il 7 per cento del Pil cinese, in futuro conterà anche di più come promette l'Internet Plus Plan, piano lanciato da Pechino lo scorso marzo che punta ad applicare le nuove tecnologie ai settori tradizionali. La risposta è no, tuttavia, se si considerano le dubbie modalità con cui il governo cinese punta ad estendere il "rule of law" sulla rete.

La Cina difende la propria sovranità sulla cybersfera

Come potenza emergente la Cina premerà per l'adozione di nuove regole nella cybersfera: parola di Lu Wei. Lo zar dell'Internet cinese ha chiuso la conferenza rinnovando il messaggio lanciato dal Presidente Xi Jinping in apertura: no ai doppi standard nel management del web. "Le norme che attualmente regolano il cyberspazio difficilmente riflettono i desideri e gli interessi della maggior parte dei Paesi," ha dichiarato Xi, "non dovrebbe esserci un'egemonia di Internet; nessuna interferenza negli affari degli altri Paese. Dobbiamo rispettare il diritto degli altri Paesi a partecipare pacificamente alla governance del cyberspazio internazionale, incluso il diritto a scegliere le proprie politiche pubbliche e a decidere come amministrare e sviluppare Internet".
Per Pechino, si sa, la sovranità è sacra. E non soltanto quando si parla di territori contesi. Da quando il caso Snowden ha rivelato il programma di spionaggio americano, il pericolo di un'ingerenza esterna da parte di Washington agita i sonni dei leader cinesi, mentre accuse incrociate di cyberspionaggio continuano a rimbalzare tra le due sponde del Pacifico. Non solo. Sotto la minaccia di attacchi terroristici (spesso coordinati in rete) e crescenti episodi di malcontento popolare, negli ultimi tempi le autorità cinesi hanno stretto il controllo su Internet, mentre è già stata adottata una legge sulla sicurezza nazionale che spazia dalla "sovranità sul web" ai "valori socialisti". Stando a quanto affermato da Xi Jinping, quel che adesso ci vuole è un trattato internazionale sul controterrorismo cibernetico.

Libertà e ordine 

"I netizen cinesi devono avere il diritto di esprimere la propria opinione su Internet". A patto che questo non porti al rovesciamento dell'ordine costituito. E' il nocciolo del discorso con cui l'uomo forte di Pechino ha intrattenuto i presenti per circa 25 minuti. "La libertà è ciò a cui punta l'ordine e l'ordine è ciò che garantisce la libertà", ha sentenziato Xi, "dobbiamo rispettare il diritto degli utenti a scambiarsi opinioni e a esprimere i propri pensieri. Dobbiamo inoltre stabilire un ordine nel cyberspazio che sia in accordo con le leggi. Questo ci permetterà di proteggere i diritti e gli interessi legittimi degli utenti". Insomma, l'azione del governo è necessaria affinché venga mantenuto un "comportamento civile" in rete, ha concluso il presidente.

L'"ossimoro" è evidente. Nelle stesse ore in cui l'intervento di Xi veniva trasmesso live su Twitter e Youtube (entrambi servizi inaccessibili in Cina senza un VPN), la stampa internazionale era ancora intenta a coprire il caso di Pu Zhiqiang, avvocato per la difesa dei diritti umani processato lunedì per sette post critici nei confronti del governo cinese. Mentre l'endorsement del padre del colosso dell'e-commerce Alibaba, Jack Ma, (letteralmente: "Se non applichiamo una governance sistematica allo sviluppo di Internet il genere umano dovrà far fronte a una grande sfida") ha riacceso i riflettori sul legame insidioso che unisce business e politica oltre la Muraglia. Alibaba ha appena concluso un accordo controverso per l'acquisto del South China Morning Post, giornale noto in passato per le sue inchieste ma recentemente sospettato di adottare un approccio filo-Pechino. Portando ad esempio l'affermazione di player cinesi, quali Baidu e Tencent, il CEO di Alibaba ha affermato che i regolamenti (leggi: la censura) non hanno ostacolato lo sviluppo e l'innovazione del settore in Cina. Anzi. Gli esperti sono piuttosto concordi nel ritenere che il rigore adottato sul web cinese sia da leggersi in chiave protezionistica, ovvero come disincentivo all'affermazione delle multinazionali straniere nel primo mercato Internet al mondo. Quanto, invece, tale rigore riuscirà ancora a fungere da filtro dei malumori popolari, è tutto da vedere. Secondo Jimmy Wales, cofondatore di Wikipedia (bloccata in Cina), lo sviluppo di programmi di traduzione automatica, in futuro, renderà il controllo dei governi sul flusso delle informazioni in rete quasi impossibile. Un messaggio ripreso sul sito ufficiale della World Internet Conference tipicamente "armonizzato" alla maniera cinese.

(Pubblicato su Gli Italiani)

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