lunedì 7 dicembre 2015

Xi Jinping vola in Africa



Si è conclusa sabato la prima trasferta del presidente cinese Xi Jinping in Africa, suggellata dalla promessa di 60 miliardi di dollari in finanziamenti e dalla rimozione del debito per i Paesi più poveri. Nei prossimi tre anni la cooperazione Cina-Africa verrà oliata da 5 miliardi di aiuti e prestiti a interessi zero; 35 miliardi di prestiti concessionali; 5 miliardi extra da devolvere al China-Africa Development Fund; 5 miliardi di prestiti speciali per le PMI e 10 miliardi di capitale iniziale per l'istituzione di un China-Africa Production Capacity Fund. I lauti finanziamenti, annunciati nel corso del Forum on China-Africa Cooperation (4-5 dicembre) di Johannesburg, Sudafrica, si inseriscono nell'ambito di un piano di sviluppo in 10 punti che abbraccia settori chiave - dall'industrializzazione, alla modernizzazione agricola, passando per le infrastrutture, i servizi finanziari, la green economy, la riduzione della povertà, la sicurezza e gli scambi people-to-people- e punta a colmare le deficienze locali in tre segmenti critici: infrastrutture (inadeguate), personale (non qualificato) e fondi (insufficienti).

Il tempismo è quanto mai azzeccato. L'Africa rientra a pieno titolo nella One Belt One Road (alias nuova via della seta), progetto che prevede la realizzazione di iniziative di natura prevalentemente commerciale (ma non solo) dall'Asia Orientale all'Europa, passando per le coste del Kenya, e che giunge provvidenzialmente in un momento di rallentamento della crescita cinese. Nei piani di Pechino, la corsa alla realizzazioni di infrastrutture -vera anima dell'OBOR-  dovrebbe aiutare la Cina a trasferire parte della propria capacità industriale in eccesso verso gli altri Paesi coinvolti. E l'Africa, con i suoi trasporti obsoleti, è in prima linea. La strategia è di tipo "win-win": la Cina ha bisogno dell'Africa e "i Paesi africani hanno bisogno dell'aiuto della Cina per lo sviluppo delle proprie risorse" ha dichiarato il presidente sudafricano Jacob Zuma, che ha copresieduto il summit insieme a Xi.

Dal 2009, la Cina è il primo partner commerciale del continente con 222 miliardi di merci e servizi scambiati lo scorso anno; cifra che dovrebbe salire a 300 miliardi entro fine 2015. E sebbene Pechino tenga segreti i dettagli della sua spesa all'estero, si stima che al momento ammontino a 2500 i progetti cinesi dislocati nei 51 Paesi africani, per un valore complessivo di 94 miliardi di dollari.

Nell'arco dell'ultimo decennio, 29,97 miliardi di dollari (il 41% del totale degli investimenti cinesi in Africa) sono andati in energia, mentre il settore dei trasporti si è assicurato 81,1 miliardi (circa il 49% del valore complessivo dei contratti nel settore delle costruzioni). Ma ora l'idillio rischia di essere interrotto dal crollo globale dei prezzi delle commodity che, nei primi tre trimestri del 2015, ha causato una ripida discesa del commercio sino-africano del 18% annuo, mentre gli investimenti cinesi nel continente hanno registrato una flessione del 40% quest'anno, (qualcuno parla addirittura di un 84%). Un trend negativo che evidenzia l'eccessivo sbilanciamento delle relazioni bilaterali verso il settore delle materie prime. Negli ultimi due lustri, la crescita africana è stata sospinta dalla vendita di petrolio, minerali ferrosi, legno e rame. Ma adesso che, per dare nuovo carburante alla propria economia, Pechino sta cercando di passare da un modello di crescita trainato dagli investimenti a uno orientato verso i consumi interni, è facilmente prevedibile una progressiva differenziazione dello shopping cinese all'estero.

"Pivot to Africa" e critiche

La disinvoltura con cui Pechino intrattiene rapporti commerciali con tutti e senza filtri etici, ovvero indipendentemente dal fatto che si tratti di autocrazie o governi democratici, è motivo di frequenti critiche in Occidente. Da alcune recenti statistiche è emerso che i leader cinesi preferiscono relazionarsi con regimi corrotti, più inclini a fare affidamento su modalità di finanziamento controverse, come nel caso dell'"Angola model"che, prevedendo sovvenzioni in cambio di risorse, viene da molti accostato ad una forma di neocolonialismo finalizzato allo sfruttamento corsaro del territorio. Lo stesso rapporto evidenzia che parte dei prestiti erogati finisce in realtà per essere utilizzata per pagare le compagnie cinesi incaricate di realizzare i progetti, assicurando così a Pechino un notevole controllo sui fondi. Gli effetti sono difficilmente calcolabili, ma non è insensato ipotizzare che la realpolitik dei finanziamenti rischi di lasciare ai governi più dispotici un ampio margine di manovra. Secondo una ricerca della University of Sussex, le regioni d'origine dei vari leader africani, durante il periodo del loro incarico, hanno ricevuto fondi per un ammontare quattro volte superiore rispetto a quello destinato ad altre aree del Paese. Addirittura si ipotizza una connessione tra una cattiva distribuzione degli aiuti cinesi a livello locale e l'impennare di episodi violenti in alcuni Stati africani.

Ad ogni modo, è bene notare che la paternale arriva da governi non senza macchia. "In the race for Africa, India and China aren’t all that different" titolava Quartz nei giorni in cui il premier indiano Narendra Modi era intento a strappare assegni nel corso dell'India-Africa Summit. E se è vero che nell'assegnazione degli ODA (official development assistance) Pechino privilegia gli Stati africani da cui riceve supporto all'interno dell'Assemblea generale dell'Onu, è altrettanto vero che gli Stati Uniti tendono a fare lo stesso.

Cosa ne pensano i diretti interessati? Xi Jinping "Sta facendo per noi quello che avrebbero dovuto fare quelli che ci hanno colonizzati. È un uomo mandato da Dio": parola di Robert Mugabe, presidente dello Zimbawe.

Dall'economia alla politica

Secondo gli osservatori, la visita di Xi ha ufficializzato una svolta nelle priorità cinesi in Africa, sempre più di natura politico-strategica, sempre meno puramente economiche, come si addice ad una superpotenza. Qualcuno ha evidenziato l'utilizzo insolito da parte di Xi del termine "compagni e fratelli" per descrivere i rapporti tra Pechino e Pretoria, a sottolineare quella comune ambizione al raggiungimento di un ordine mondiale multipolare. Che sul piano ideologico si traduce in una messa in discussione del ruolo egemonico dei valori occidentali, con toni talvolta grotteschi. "Ora insieme con la Cina combatteremo per la realizzazione di una vera democrazia negli Stati Uniti" ha affermato il dittatore dello Zimbawe Mugabe, stando alla South African Government News Agency. Per chi non lo sapesse, lo scorso ottobre Mugabe era stato insignito del Premio Confucio, la versione cinese del Nobel per la pace. Prima di raggiungere Johannesburg, la scorsa settimana, Xi aveva trascorso alcune ore in Zimbawe, divenendo il primo presidente cinese a visitare il Paese dai tempi di Jiang Zemin (1996). Qui sono stati conclusi 12 accordi in comparti strategici quali energia e telecomunicazioni, per un valore di circa 4 miliardi di dollari.

Geopolitica e sicurezza

Se, da una parte, la scelta di inglobare l'Africa nella nuova via della seta parrebbe aver motivazioni economico-strategiche, dall'altra il recente attivismo cinese nel continente è riconducibile anche a esigenze di sicurezza. Alcuni giorni fa, tre dirigenti della China Railway Construction Corp hanno perso la vita nell'attentato al Radisson Hotel di Bamako, in Mali. Durante il suo discorso all'Assemblea generale dell'Onu, lo scorso novembre, Xi ha promesso che la Cina contribuirà con 8000 truppe alle operazioni internazionali di peacekeeping e, nei prossimi 5 anni, destinerà all'Unione Africana 100 milioni per il mantenimento della pace. Mentre risale ad alcuni giorni fa la conferma dell'apertura della prima base militare permanente cinese in Africa, a Gibuti, nel Golfo di Aden, dove il Dragone è già attivo nell'ambito di missioni antipirateria.

Da tempo gli analisti avanzano dubbi sulla natura dei progetti marittimi portati avanti da Pechino tra il Mar Cinese Meridionale e il Mar Rosso (basi logistiche, secondo la retorica governativa; avamposti militari ascrivibili ad una strategia nota come "filo di perle", secondo i più maliziosi). L'annuncio dell'accordo con Gibuti -dove sono già militarmente presenti anche Stati Uniti, Francia e Giappone- non ha fatto altro che gettare ulteriore benzina sul fuoco. Alle critiche di quanti intravedono nell'ultima mossa la pistola fumante di una crescente assertività cinese sullo scacchiere globale, il China Daily ha risposto così: "Un crescendo della retorica sulla minaccia cinese” non ci impedirà "di tutelare i nostri interessi legittimi, nel quadro del diritto internazionale. Allora il nostro esercito avrà un'ulteriore opportunità per dimostrare il suo impegno per la pace e che le sue capacità si combinano con la buona volontà". Che ci crediate o meno.

(Pubblicato su Gli Italiani)

(GUARDA L'INFOGRAFICA SUL SOUTH CHINA MORNING POST)

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