mercoledì 3 febbraio 2016

The Show Must Go On


[AGGIORNAMENTI:
26 febbraio: L'avvocato per la difesa dei diritti umani, Zhang Kai, è apparso sulla CCTV dopo mesi di detenzione. Il 25 agosto era stato prelevato dalle autorità insieme al suo assistente mentre si trovava a Wenzhou (Zhejiang) -la legge cinese autorizza la detenzione informale fino a un massimo di sei mesi. Zhang, che in passato aveva preso le parti della comunità cristiana in Cina, ha ammesso davanti alle telecamenre di aver "infranto la legge, violato l'ordine pubblico e messo in pericolo la sicurezza dello Stato". Secondo quanto riportato da un giornalista dell'emittente statale, l'avvocato sarebbe coinvolto in una serie di raduni illegali andati in scena nella città di Wenzhou per fermare i lavori di smantellamento di alcuni edifici religiosi costruiti senza autorizzazione. Nella sua confessione Zhang ha inoltre dichiarato di aver ricevuto dei finanziamentii dalla Ong americana ChinaAid.


Cosa accomuna il libraio di Hong Kong Gui Minhai, l'attivista svedese Peter Dahlin e il giornalista finanziario Wang Xiaolu? Poco e niente, fatta eccezione per la loro recente apparizione in prima TV nella veste di rei confessi. Ultimi nomi di una lunga lista di mea culpa apparsi sull'emittente di stato cinese CCTV. Nove sono le confessioni più note trasmesse in Cina sul piccolo schermo dall'agosto del 2013, quattro coinvolgono cittadini con passaporto straniero: oltre ai più recenti casi di Gui Minhai e Peter Dahlin, il New York Times ricorda le autocritiche dell'investigatore di GSK Peter Humphrey e del venture capitalist americano Charles Xue.

Le confessioni sono state a lungo parte fondamentale del sistema giuridico cinese, con frequenti autocritiche da parte di piccoli criminali davanti alle telecamere. Una "repressione visiva" che attinge ad un repertorio di proverbi locali dal "colpirne uno per educarne cento" (copyright Mao Zedong) ad "ammazzare i polli per spaventare le scimmie". Raramente, però, tale pratica ha coinvolto figure di spicco del mondo degli affari, scriveva tempo fa la Reuters. Tantomeno stranieri. Non stupisce quindi che l'ampia portata della campagna abbia attirato la condanna dell'Unione Europea e del Dipartimento di Stato Usa.

D'altronde, la tv di Stato non è nuova a questo tipo di inciampi. Nel marzo 2013 l'emittente era finita nell'occhio del ciclone per aver trasmesso il preludio all'esecuzione del narcotrafficante birmano, Naw Kahm, e dei suoi uomini. Al tempo il noto avvocato attivista Liu Xiaoyuan aveva definito l'infelice scelta "una violazione dell'articolo 252 del codice di procedura penale della Repubblica popolare cinese" che "vieta l'esposizione in pubblico dei condannati a morte". Similmente, lo show delle confessioni in assenza di un giusto processo mina la credibilità delle autorità in un momento in cui la Cina è alle prese con una complessa riforma del sistema giudiziario finalizzata al rafforzamento del "governo della legge". Nelle riprese televisive "le accuse non vengono mai smentite, né viene lasciato spazio alle dichiarazioni dei legali. Tutto ciò viola i principi basilari del giornalismo", commenta l'avvocato Mo Shaoping ai microfoni della CNN.

L'obiettivo dei media parrebbe essere quello di sostenere l'agenda politica di Pechino, come nel caso di Dahlin finito nelle maglie dell'anticrimine mentre il gigante asiatico si appresta ad approvare una nuova legge con lo scopo di controllare l'intricato sottobosco di ONG straniere operanti sul territorio cinese. Così come la comparsa televisiva di Zhou Shifeng, fondatore di Beijing Fengrui Law Firm ("un'associazione criminale", secondo l'agenzia di stampa Xinhua), si inserisce nel clamoroso giro di vite che dalla scorsa estate ha portato alla detenzione di oltre 300 avvocati e attivisti, di cui sedici tutt'ora in manette con l'accusa di "tentata sovversione dello Stato". A finire sotto i riflettori genitori in lacrime, colleghi e accuse incrociate tra sospettati -si teme- estratte con subdoli ricatti, come il ricorso a minacce contro i famigliari e il negato accesso alle cure mediche.

Pochi giorni fa due organizzazioni per la difesa dei lavoratori (il Nanfeiyan Social Work Service Center e il Panyu Migrant Workers Center) hanno fatto causa a un giornalista della Xinhua responsabile di accuse infondate nei confronti di due attivisti.

"Siamo difronte a due questioni differenti, ovvero l'uso di autocritiche al di fuori del processo penale (ad esempio nell'ambito di un procedimento disciplinare di partito) e autocritiche che invece servono come confessioni in effettive accuse di carattere penale" ci spiega Margaret Lewis della Seton Hall Law School. "Anche se non è scritto nel codice di procedura penale, la Cina ha avuto per lungo tempo una politica informale 'di clemenza per chi confessa, severità invece per chi fa resistenza'. E, alla luce dell'elevato numero di condanne, è comprensibile che i criminali sospettati provino almeno a diminuire le accuse a loro carico e a ottenere una sentenza più mite. Allo stesso tempo la tendenza di questi ultimi anni è stata quella di ridurre le confessioni estorte, in gran parte per via di imbarazzanti errori giudiziari."

La pratica, d'altro canto, affonda le radici in una realtà sociale in cui "perdere la faccia" viene ancora considerato un disonore. Nel suo controverso "The Chrysanthemum and the Sword", l'antropologa americana Ruth Benedict distingue la "cultura della vergogna" dalla "cultura della colpevolezza", incarnate rispettivamente dalla società giapponese e da quella statunitense. Dove la prima categoria abbraccia un po' tutti i paesi caratterizzati da un forte imprinting confuciano. Il perché va ricercato in un passo dei "Dialoghi" del Maestro Kong: "Guidando il popolo con ingiunzioni amministrative e tenendolo al proprio posto attraverso il diritto penale, si eviteranno le punizioni, ma non il senso di vergogna. Guidandolo con l'eccellenza e mantenendolo al proprio posto attraverso i ruoli e le pratiche rituali, oltre a sviluppare un senso di vergogna, lo si conserverà armonioso". E l'armonia, si sa, non è qualcosa su cui Pechino tollera compromessi.

Ma è all'Unione Sovietica che tocca guardare per capire l'origine delle teatrali autocritiche e dei cappelli da asino che hanno caratterizzato gli anni della Rivoluzione Culturale (1965-1969). Il 9 settembre 2013, l'agenzia di stampa Xinhua ha pubblicato una lunga riflessione di Liu Yunshan, membro del Comitato permanente del Politburo (il ghota del potere), riguardo alla "critica e l'autocritica" nella contemporaneità cinese. Definite il riflesso dell'epistemologia e della pratica marxista, "critica" e "autocritica" sono i principi fondamentali che regolano la vita politica all'interno dei partiti marxisti. "La questione della colpa e dell'innocenza sono asserviti agli imperativi del potere politico", avverte David Bandurski, editor di China Media Project, "oggi proprio come in passato, la cultura delle confessioni non ha nulla a che vedere con la responsabilità, con un governo limpido o un sistema basato sulle leggi. E' una questione di dominio e sottomissione. Il Presidente Xi Jinping è il capo confessore della Cina. E gli altri sono ai suoi comodi."

Che la strategia stia sortendo gli effetti sperati, comunque, è tutto da vedere. "Nonostante lo spazio online sia controllato, regolato e monitorato, è interessante notare che dopo questa campagna denigratoria si sono visti diversi post [critici]...a parlare non sono stati soltanto i famigliari [dei rei confessi]", afferma Eva Pils del King's College. "Nonostante l'ecosistema di intimidazioni, una serie di messaggi sono emersi mettendo in dubbio la versione dei fatti fornita dallo Stato".


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