lunedì 27 novembre 2017
In Cina e Asia
Il papa in Myanmar per promuovere la pace
E’ cominciata quest’oggi la visita di Bergoglio in Myanmar, la prima di un pontefice nel paese del Sudest asiatico. Il papa incontrerà sia Aung San Suu kyi che il capo dei militari Min Aung Hlaing. Terrà poi due messe a Yangon, mercoledì e giovedì, prima di proseguire per il Bangladesh, dove incontrerà la comunità locale dei rohingya, la minoranza musulmana che vive nel confinante stato Rakhine. Lo stile “anticonvenzionale” di Bergoglio è motivo di apprensione per la comunità cristiana locale preoccupata di poter diventare bersaglio dell’estremismo buddhista, finora concentrato a difendere l’etnia maggioritaria bamar da una presunta sommersione etnica di matrice musulmana. Mentre il Santo Padre ha definito gli sfollati “i nostri fratelli e le nostre sorelle rohingya”, il cardinale Bo di Yangon ha invitato il papa a trattenersi dall’utilizzare il nome rohingya — rigettato dal governo birmano — optando per un anonimo “bengalesi”. In Birmania ci sono circa 650mila cattolici — perlopiù provenienti da stati semiautonomi non ancora del tutto pacificati — di cui 150mila attesi per a Yangon per l’arrivo del pontefice. Storicamente nel Sudest asiatico, il dilagare del nazionalismo buddhista di epoca coloniale ha colpito tanto gli islamici quanto i cristiani, considerati, per le loro idee occidentali, un elemento di instabilità politica. Le criticità del continente e il rapido aumento di cattolici (+9% in cinque anni) hanno spinto Bergoglio a visitare già altri tre paesi asiatici da quando è asceso al soglio pontificio.
Intanto, proprio oggi il quotidiano statale Global New Light of Myanmar ha annunciato che Suu Kyi tornerà presto in Cina, meta da lei scelta come primo viaggio da ministra nel 2015. La visita, che comincerà giovedì e si protrarrà fino al 3 dicembre, conferma la volontà di Naiypydaw di coltivare l’amicizia con Pechino come contraltare alle critiche dell’occidente circa la gestione delle minoranze.
Non si placano le polemiche sugli asili cinesi
Mentre ancora imperversano le polemiche per gli sgomberi dei lavoratorimigranti nella periferia di Pechino, la capitale cinese è stata travolta da un’altra ondata di malcontento. Stavolta però guidata dalla classe media dell’esclusivo distretto di Chaoyang. Nella giornata di sabato, la società RYB Education Inc, quotata a New York, ha annunciato il licenziamento di un’insegnante di 22 anni (ora sotto “detenzione criminale”) e del preside della scuola materna accusata la scorsa settimana di maltrattamenti e abusi sui bambini. Tra le accuse, quella di aver somministrato agli alunni strane pillole, oltre ad averli pungicati con aghi e costretti a svestirsi. Giovedì il governo ha avviato una campagna di verifica a livello nazionale. Quello di Chaoyang, infatti, è soltanto l’ultimo scandalo in ordine di tempo a coinvolgere il settore dell’educazione infantile in Cina. Nel 2015, un’altra struttura del gruppo RYB — che gestisce 1300 asili nido e 500 scuole elementari in oltre 300 città cinesi — con sede nel Jilin era stata colpita da accuse analoghe, mentre solo alcuni giorni fa un asilo di proprietà della nota azienda turistica Ctrip era finito nell’occhio del ciclone per maltrattamenti più lievi. Il problema, dicono gli esperti, sta nelle scarse qualifiche del personale, con circa un quarto degli insegnanti di scuola materna ad avere soltanto un diploma superiore e la metà sprovvista di un certificato adeguato per l’insegnamento all’asilo. Con il miglioramento delle condizioni di vita, oltre Muraglia, la spesa annuale pro-capite per l’istruzione privata è cresciuta rapidamente, passando dai circa 600 yuan ($ 91) del 2006 agli oltre 1.000 yuan dell’anno scorso. La storia dell’asilo di Pechino continua a tenere banco sui social anche per via di rumor su un presunto coinvolgimento di alcuni membri dell’esercito.
Nazionale cinese under-20 lascia la Germania per proteste pro-Tibet
Il tour tedesco della squadra di calcio cinese under-20 è stato sospeso fino a data da definirsi. Lo ha dichiarato ieri la German Football Association dopo che proteste pro-Tibet hanno indotto i giocatori cinesi ad abbandonare il campo durante il primo match. Il 18 novembre, l’incontro contro il TSV Schott Mainz era stato interrotto per 25 minuti quando quattro rifugiati tibetani e due tedeschi del gruppo Tibet-Initiative Germany avevano esposto delle bandiere tibetane inducendo i calciatori ad andarsene. A seguito delle proteste, tre squadre tedesche si sono rifiutate di giocare in Cina, mentre le altre sono state pagate 15.000 euro per partecipare. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Lu Kang ha invitato i padroni di casa tedeschi a mostrare “rispetto reciproco”, affermando che il governo si oppone a qualsiasi “attività separatista, anti-Cina o terrorista”. In tutta risposta Reinhard Grindel, president della German Football Association, ha difeso il diritto alla libertà di espressione aggiungendo che “quando si gioca in Germania bisogna anche affrontare il fatto che chiunque può esprimere la propria opinione.” La squadra della Repubblica popolare, inizialmente attesa sabato scorso a Francoforte, avrebbe dovuto disputare un totale di 16 partite fino a maggio 2018.
Damasco pronta ad attirare investimenti cinesi in cambio di petrolio e scambi in yuan
La Cina è la benvenuta nel processo di ricostruzione nazionale, ora che la Siria è libera dalla minaccia dell’Isis. A dirlo è l’ambasciatore siriano a Pechino Imad Moustapha, che in un’intervista al South China Morning Post spiega come il governo di Assad è pronto a barattare petrolio in cambio di prestiti e a utilizzare lo yuan, negli scambi commerciali tra le due parti, venendo incontro alle ambizioni internazionali della valuta cinese. “Vogliamo siano paesi come la Russia, la Cina, l’India e l’Iran e prendere parte alla ricostruzione”, non quelli che hanno partecipato alla guerra (leggi: Stati Uniti e Turchia). Sebbene Pechino non sia mai intervenuta direttamente nel conflitto, ha più volte esercitato il proprio potere di veto in sede Onu — al fianco di Mosca — per bloccare l’implementazione di nuove sanzioni contro Damasco. Secondo Moustapha, ormai la Siria riceve aziende e delegazioni “quasi giornalmente”: “alcune di loro hanno già firmato diversi contratti mentre altre sono in procinto di firmarli”. Secondo la Banca mondiale, i costi della ricostruzione nazionale ammontano a circa 200 miliardi di dollari. Ma, per Pechino, il paese arabo non costituisce soltanto una fonte di idrocarburi. L’ambasciatore siriano ricorda come l’intelligence di Damasco sia in continuo contatto con la Cina per monitorare il flusso di uiguri in arrivo dal Xinjiang per partecipare al jihad. Stando al diplomatico, sarebbero già circa 5000 in territorio siriano.
L’ombra di Cina e India sulle legislative nepalesi
Domenica, in Nepal, sono cominciate le elezioni per il parlamento nazionale e le assemblee provinciali, le prime da quando è stata approvata la nuova costituzione nonché le prime dal termine della guerra civile che ha contrapposto per dieci anni (1996–2006) i ribelli maoisti del Partito Comunista in lotta per rovesciare la monarchia e le forze governative lealiste. Sulla base di quanto stabilito dal nuovo statuto, non solo alcuni partiti marginali verranno estromessi dai parlamenti, ma sarà anche più difficile costringere un primo ministro al prepensionamento. Una misura dettata dall’esigenza di assicurare una maggiore longevità ai futuri governi: finora nessuno è durato tanto da concludere un intero mandato. Le votazioni — che vedono l’alleanza tra gli ex ribelli maoisti e i comunisti di CNP-e UML fronteggiare la coalizione tra il centrista Partito del Congresso Nepalese e i partiti dell’etnia Madhesi, avranno ripercussioni geopolitiche non indifferenti. Nell’ultimo anno, alla guida di Kathmandu si sono susseguite leadership con ambizioni strategiche differenti, alcune più orientate verso la Cina altre verso l’India, partner storico del paese himalayano. L’interesse di Pechino per il Nepal e le sue risorse idriche si è rafforzato con l’avvio del progetto per una nuova via della seta tra Asia ed Europa — progetto da cui Delhi continua a tenersi lontana. Proprio di recente l’insoluta incertezza di Kathmandu tra i due benefattori, è costata a Pechino l’annullamento di un accordo da 2,5 miliardi per la costruzione di una diga sul fiume Budhi Gandaki.
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