La strada che divide Lanzhou, capitale della provincia centro-settentrionale del Gansu, da Linxia costeggia terrazzamenti agricoli, le sabbiose pendici dell’altopiano del loess e una distesa interminabile di moschee: centinaia di moschee, sormontate da cupole arabeggianti o coperte dai tipici tetti spioventi mutuati dalla tradizione cinese. Poi il pullman comincia a salire e le mezze lune cedono il posto alle variopinte bandiere della preghiera tibetane e alle sommità dorate dei monasteri buddhisti. Appena un centinaio di chilometri separano la “piccola Mecca cinese” dalla nostra destinazione finale. Ma è completamente un’altra Cina quella che ci accoglie a Xiahe, cittadina a 3000 metri sul livello del mare, sede fin dai primi anni del XVIII secolo della più grande struttura buddhista dell’Amdo, una delle tre regioni culturali tibetane oggi collocata fuori dai confini della regione autonoma (TAR), in quello che si è soliti chiamare “Tibet storico”. Un Tibet più tollerante nei confronti dei visitatori stranieri e della libertà di culto di quanto non lo sia Lhasa, epicentro degli scontri tra han (l’etnia maggioritaria cinese) e tibetani che nel 2008 costarono la vita a decine di persone.
Qui i cartelloni propagandistici inneggianti all’armonia interetnica che tappezzano la musulmana Lanzhou vengono sovrastati dai colorati mandala realizzati sul momento nei piccoli laboratori artistici che circondano il monastero di Labrang, il cuore pulsante di Xiahe. Un modesto presidio della polizia, mirato allo smaltimento del traffico più che all’ordine pubblico, ci rammenta che le tensioni etniche registrate negli scorsi anni sono ormai sopite. Tanto da permettere ai negozianti locali di esporre immagini del Dalai Lama — un “secessionista” secondo Pechino — con l’implicito endorsement delle autorità locali.
Percorrendo verso est la Renmin Jie, l’arteria che attraversa la città, fa capolino tra i palazzi una vecchia moschea del XIX secolo pensata per accogliere la comunità musulmana degli hui, qui confluita in seguito all’ondata migratoria in arrivo da Linxia due secoli fa. Sottoposto negli anni a numerose ristrutturazioni, oggi dell’edifico originario non resta che il minareto, mentre ruspe e transenne preannunciano la nascita di un complesso nuovo di zecca.
Discendenti sinizzati dei commercianti arabi giunti nell’ex Celeste Impero lungo l’antica Via della Seta, nel passaggio dall’impero alla repubblica, gli hui si sono prestati al ruolo di intermediari politici e culturali tra i popoli di frontiera, fautori dei grandi movimenti separatisti della storia cinese e il governo centrale. Tutt’oggi vengono considerati la “faccia buona” dell’Islam d’oltre Muraglia in contrapposizione alla problematica etnia turcofona degli uiguri, concentrata nella vicina regione autonoma dello Xinjiang e ritenuta responsabile di una serie di attacchi terroristici avvenuti in varie parti del paese a partire dagli anni ’90. A Xiahe — dove gli hui rappresentano soltanto il 10% della popolazione locale in massima parte tibetana — l’uso del velo per le donne è tollerato laddove nello Xinjiang viene severamente bandito per mezzo di una draconiana legge antiterrorismo, che punta a soffocare qualsiasi velleità secessionista.
Gli annali imperiali, tuttavia, ci raccontano un passato turbolento, inframmezzato da insurrezioni sanguinose. Come fa notare Francesca Rosati in “L’Islam in Cina”, i primi a ribellarsi al governo Qing non furono i turchi musulmani bensì i dungan hui, ovvero i musulmani immigrati nello Xinjiang dalle regioni più interne della Cina a seguito delle rivolte islamiche scoppiate nelle vicine province nordoccidentali, i quali lavoravano come commercianti, contadini e militari. Con 10 milioni di vittime, la rivolta dei dungan (1862–1877) — mirata alla creazione di un Emirato islamico cinese nella valle dell’fiume Giallo e nelle regioni di Gansu, Ningxia e Shaanxi -viene considerata la quarta “guerra civile” più cruenta della storia cinese.
Sebbene, negli ultimi anni, l’attenzione dei media internazionali si sia concentrata soprattutto sui travagliati rapporti tra gli han e le altre 55 minzu (etnie) in cui è divisa la popolazione cinese (di cui ben 10 di religione musulmana), non sempre il rapporto tra le varie minoranze è stato contraddistinto da una solidale resistenza contro la sinizzazione forzata con cui Pechino punta a controllare/omologare le “entità aliene” entro i confini del Regno di Mezzo.
Schermaglie tra “barbari” si fanno risalire fino alla dinastia mongola degli Yuan (1271–1368), quando , i musulmani — definiti da Gengis Khan “schiavi” nonostante il loro riposizionamento al vertice dell’amministrazione in chiave anti-han — furono vittime di crudeli discriminazioni, tanto da decidere di appoggiare la ribellione han che portò alla dissoluzione della dinastia mongola e all’avvento dei Ming (1368–1644).
Frizioni tra musulmani — per ragioni dottrinali ed economiche — sono ben documentate in varie epoche storiche. Un vecchio detto uiguro invita a “proteggere la religione, uccidere gli han e distruggere gli hui” tanto che tutt’oggi le due minoranze islamiche praticano in luoghi di culto differenti.
Il Gansu, con la sua storica posizione lungo le rotte carovaniere verso l’Asia Centrale, è sempre stato territorio di incontro/scontro tra popoli differenti. Stando ai racconti di strada, oggi come all’epoca, l’apparente quiete che regna per le strade di Xiahe è una tregua tutt’altro che granitica.
“In generale, la situazione a Labrang e nel Gannan (Gansu meridionale) è tesa seppur meno che in altre zone della Cina”, spiega al Manifesto Paul Nietupski, coautore di “Muslims in Amdo Tibetan Society: Multidisciplinary Approaches” , “il governo centrale sta cercando di ‘modernizzare’ e ‘standardizzare’ ad ogni costo le identità minoritarie in tutto il paese, talvolta attraverso l’imposizione di un immaginario tradizionale, come nel caso del Tempio di Confucio costruito presso le grotte buddhiste di Yungang”
La presenza musulmana a Xiahe è diventata stabile nel 1854, quando il terzo Jamyang (la massima autorità religiosa a Labrang) concesse ad alcune famiglie hui ed han di prendere dimora presso il monastero. Poi, con la cruenta repressione dei regnanti Qing (1644–1911) contro le rivolte islamiche deflagrata a Linxia nel 1885, il numero dei nuovi arrivati in cerca di rifugio e opportunità di scambi commerciali cominciò a crescere rapidamente. Per i forestieri non fu difficile amalgamarsi alla popolazione autoctona, arrivando persino ad accettare l’autorità del Jamyang con offerte, corvée e la richiesta di benedizioni.
“I musulmani in particolare svolgevano tradizionalmente commerci di pellame e carni, e ricoprivano spesso il ruolo di xiejia, un titolo popolare sin dalla dinastia Ming (1368–1644) nell’ambito del commercio di tè e dei cavalli, poi evoluto durante l’epoca Qing nella più poliedrica funzione di collettore delle tasse sul grano dai tibetani per conto del governo, mediatore di dispute legali tra i tibetani (per i quali la lingua cinese non era intelligibile) e le autorità imperiali, censore della popolazione e delle terre, e infine supervisore dei commerci contro il traffico illegale di merci pregiate”.
I primi sintomi di una crescente ostilità tra tibetani e hui cominciarono ad emergere in seguito all’occupazione del monastero di Labrang (1917) da parte di Ma Qi, comandate musulmano, alleato dei nazionalisti del Guomindang, che assoggettò le tribù locali a colpi di mitragliatrice. L’esploratore austriaco Joseph Rock racconta di come le teste di “giovani donne e bambini” furono utilizzate dai conquistatori islamici per decorare gli accampamenti militari. E’ forse anche per questo che, alla vigilia delle Olimpiadi del 2008, le violenze innescate dalle proteste dei monaci buddisti contro le politiche etniche di Pechino non risparmiarono nemmeno i commercianti hui di Lhasa e la loro moschea, in un tutto contro tutti che trascende la semplicistica retorica han vs minoranze etniche tanto in voga sulla stampa occidentale.
“In generale i tibetani e i musulmani di Xiahe tendono a mescolarsi, in parte perché ciò giova agli affari, in parte perché fare altrimenti è molto illegale”, spiega Nietupski, “storicamente, i tibetani di Xiahe sembrano avere coabitato con i musulmani Linxia meglio che con i musulmani di altre aree del paese. Anche qui, tuttavia, permane una tensione latente tenuta sott’occhi dai governati han. Semplicemente, un conflitto aperto tra musulmani e tibetani non sarebbe tollerato”.
Il confine che separa l’espressione religiosa da quella politica è quantomai sottile. Ultimamente, il crescente interesse per un “Islam universale” ha acceso i riflettori sull’eventualità che prima o poi gli hui — proprio come gli uiguri — possano cominciare a considerarsi prima di tutto musulmani, ponendo la loro ‘cinesità’ in secondo piano. Circa 300 hui vivono nella città sacra di Medina, in Arabia Saudita, mentre recentemente, 200 cinesi di origine centro asiatica (soprattutto uiguri), in Egitto per motivo di studio, sono finiti in custodia su richiesta di Pechino. Intanto, avvisaglie di una crescente islamofobia si fanno strada sul web cinese senza distinzione etnica.
La leadership punta ad edulcorare gli animi promettendo alle regioni occidentali una fetta di quel benessere materiale monopolizzato dalle province costiere nelle ultime tre decadi. Tanto il Gansu quanto il Xinjiang sono al centro del colossale progetto con cui la Cina mira a restaurare una nuova Via della Seta attraverso l’Eurasia a base di infrastrutture e scambi commerciali. Ma perché questo avvenga la stabilità è un prerequisito fondamentale, e poco importa se essa sia spontanea o indotta a forza.
“Han, tibetani, hui e uiguri sono una cosa sola”, sostiene convinto un commerciante uiguro trasferitosi nella città-oasi di Dunhuang, 1000 chilometri a nord di Xiahe, per scappare alla “terribile povertà del Xinjiang”. Un ottimismo difficilmente ravvisabile nelle parole di Arafat, venditore di qiegao, tipico dolce xinjiangnese a base di frutta secca. Me ne offre un pezzo mentre mi racconta di come sia fuggito alle restrizioni imposte nella sua città d’origine: controlli all’ingresso dei centri commerciali e divieto di barba per gli uomini e velo per le donne. Poi armato di smartphone spiaccica la sua faccia alla mia. Ci scambiamo i numeri di telefono per condividere quel buffo selfie. Mentre mi cerca invano su WeChat il suo sguardo si fa corrucciato. “Non ti trova. Non ti può trovare”, spiega un passante han incuriosito dalla mia presenza, “gli uiguri non possono comunicare con l’estero. E’ una questione di sicurezza”. Arafat sembra realizzare come quel nostro curioso incontro rischi di costargli guai seri. Con fare concitato cancella il mio numero, il nostro selfie e qualsiasi prova incriminante di quel bizzarro incontro tra “barbari”.
(Scritto per il manifesto)
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