domenica 25 maggio 2014

Russia e Cina, una tortuosa rinascita



100 miliardi di dollari di scambi bilaterali nell'arco di due anni, 200 miliardi entro il 2020. E forniture di gas siberiano per un valore stimato di 400 miliardi di dollari. Le relazioni sino-russe vivono un periodo di rinascita, sono i numeri a dirlo. Eppure c'è ancora chi tra i due intravede gli strascichi di una circospezione risalente ai tempi della labile alleanza tra Sun Yat-sen e il Comintern (1923), poi degenerata a causa della riluttanza di Mao Zedong ad accettare le direttive del "grande fratello socialista". Toccò aspettare il 16 maggio del 1989 per vedere un segno di disgelo tra i due giganti d'Eurasia: Repubblica popolare e Unione Sovietica ricominciavano da una stretta di mano. Quella tra Deng Xiaoping e Mikhail Gorbachev, che portò alla normazione dei rapporti sino-sovietico dopo trent'anni di stallo.

La crisi Ucraina ha contribuito a riavvicinare le due potenze, ora che le storiche frizioni sono ormai alle spalle e le pretese dirigiste di Washington in Asia necessitano di essere contrastate da un fronte coeso. Come scrive Stefano Vernole sulla rivista di geopolitica Eurasia, "il gioco 'duro' attuato da Washington tramite i suoi satelliti di Bruxelles ha costretto il capo del Cremlino ad abbandonare le sue storiche esitazioni verso l’Ostopolitik e a virare in maniera decisa a favore dell’asse eurasiatico Russia-Cina-Iran prospettato già all'inizio degli anni Novanta da Evgenij Primakov e dalla sua dottrina geopolitica".

Le dispute territoriali con le Nazioni asiatiche vicine rendono la liaison con Mosca particolarmente importante per Pechino; allo stesso tempo l'isolamento in cui è piombata la Russia, dopo i fatti di Crimea, rende l'alleanza con il Dragone non più soltanto vantaggiosa, ma addirittura necessaria. La speciale intesa che intercorre tra i rispettivi leader ha finora contribuito a rafforzare la partnership strategica. Nel marzo 2013, la Russia fu scelta dal neo-presidente cinese Xi Jinping come meta del suo primo viaggio di Stato. Xi vi ritornò più tardi ben altre due volte in occasione del G-20 e all'inizio dell'anno per prendere parte alla cerimonia d'apertura dei Giochi olimpici invernali di Sochi. Soltanto pochi giorni fa i due leader hanno fir­mato una una richie­sta con­giunta per­ché la comu­nità inter­na­zio­nale "ces­si di usare il lin­guag­gio delle san­zioni uni­la­te­rali e di inco­rag­giare atti­vità tese a cam­biare il sistema costi­tuzionale di un Paese stra­niero". Chiara allusione ai fatti in Ucraina.

Il 20 maggio Putin è volato a Shanghai per presenziare al CICA (Conference on Interaction and Confidence Building Measures in Asia), summit sulla sicurezza asiatica che riunisce 26 Stati asiatici. Lo stesso giorno Mosca e Pechino hanno dato il via alla "Joint-Sea 2014", esercitazioni navali congiunte nelle acque agitate del Mar Cinese Orientale dove il Dragone ha una causa in sospeso con Tokyo per la sovranità delle isole Diaoyu/Senkaku, mentre - più a nord - l'arcipelago delle Curili è aggetto di una disputa molto più 'soft' tra il governo russo e quello nipponico. E' la terza volta in tre anni che le rispettive marine tengono esercitazioni lungo la costa cinese. Da quando la presidenza della Repubblica popolare è passata nelle mani di Xi, Mosca ha mostrato una maggiore disponibilità a condividere la propria tecnologia militare. A ridosso della prima visita del presidente cinese nella capitale russa, girarono voci di importanti accordi per l'acquisto di ben quattro sottomarini a propulsione indipendente Classe Lada, così come di ventiquattro caccia multiruolo Su-35. Mentre più di recente Putin parrebbe aver approvato anche la vendita del più avanzato sistema di difesa antimissile S-400.

Qualcuno ha fatto notare che la politica estera muscolare di Xi Jinping nell'Asia Pacifico potrebbe essere addirittura incoraggiata dall'aggressività russa in Crimea, nonostante la Cina professi 'la non ingerenza negli affari altrui', considerate le pretese indipendentiste/separatiste che Pechino si trova a gestire in casa propria (leggi: Taiwan, Xinjiang e Tibet) e sulle quali non vuole si metta bocca. Il China Daily, uno dei quotidiani di norma più soft della Repubblica popolare, commentava la visita di Putin a Shanghai auspicando una maggiore collaborazione tra Pechino e Mosca nel "preservare l'ordine internazionale e la sicurezza globale", sopratutto in chiave anti-giapponese. "La cooperazione tra i due Paesi è particolarmente urgente alla luce dei tentativi allarmanti da parte del Premier nipponico Shinzo Abe di calpestare la storia della Seconda Guerra Mondiale e ribaltare l'ordine stabilito nel dopoguerra".

Tuttavia, finora, Pechino ha mostrato una maggiore cautela nel muoversi sullo scacchiere internazionali. Lo dimostra l'astensione avanzata in occasione del referendum sulla Crimea, un vero e proprio tradimento per Mosca, che invece esercitò il suo diritto di veto al Palazzo di Vetro bloccando la risoluzione di Usa & Co., pur venendo mollata dal suo più prezioso alleato. Oltre la muraglia molti ricordano ancora i due "pseudo-referendum" russi che costarono alla Cina la perdita della Mongolia (1945) e del Tannu Uriankhai (1921) per complessivi 2 milioni di chilometri quadrati di territorio.

Allo stesso tempo, i numeri sul commercio bilaterale snocciolati dal presidente russo alla stampa cinese rimangono ancora molto lontani dalle cifre macinate da Repubblica popolare ed Europa (540 miliardi di dollari), suo primo partner commerciale. I 200 miliardi preannunciati per il 2020 sono ancora lontani dagli attuali 330 miliardi totalizzati da Pechino negli scambi con il "nemico" giapponese. Restano diversi dubbi anche riguardo lo storico accordo sul gas, raggiunto mentre Putin si trovava a Shanghai, dopo dieci anni di trattative sul prezzo e che dovrebbe assicurare alla Cina 38 miliardi di metri cubi di gas russo per trent'anni a partire dal 2018. La segretezza dei dettagli non chiarisce la natura dell'intesa, né fa luce sul prezzo finale. Pare comunque che Pechino sia riuscito a ottenere uno sconto offrendo un prestito di circa 50 miliardi di dollari per lo sviluppo dei giacimenti di gas e la costruzione del gasdotto dalla Russia al confine cinese.

Come ricorda la rivista economico-finanziaria Caixin, i precedenti ci insegnano che quando si ha a che fare con accordi energetici le inversioni a U non sono una rarità. E' già avvenuto con la russa Yukon, che ne 2003 si impegnò a coprire un terzo delle importazioni di petrolio del Dragone entro il 2030. Soltanto un anno dopo il piano saltò a causa dell'arresto "per evasione fiscale" del proprietario della società, Mikhail Khodorkovsky, acerrimo nemico di Putin rimesso in libertà con un gesto di magnanimità pre-Sochi. Ugualmente, il sistema di pipeline che avrebbe dovuto pompare oro nero dai giacimenti di Angarsk, in Siberia, fino a Daqing, nella Cina settentrionale, non è mai entrata in funzione. A complicare i giochi, parrebbero esserci una serie di gruppi liberali filoccidentali, ultranazionalisti e burocrati del Far East russo ostinatamente contrari ad un'eccessiva dipendenza dalla Cina.

Da parte sua, Pechino ha già provveduto a diversificare i suoi fornitori e a coltivare più intensamente le proprie amicizie in Medio Oriente, senza troppo entusiasmo da parte di Mosca. Nel 2009 è stata completata una prima parte del gasdotto costruito in joint venture da Cina, Kazakistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Lo scorso autunno, durante il suo tour in Asia Centrale, Xi ha presenziato all'inaugurazione del giacimento turkmeno di Galkynish, il secondo al mondo per riserve di gas, dal quale Pechino attingerà 25 miliardi di metri cubi di gas a partire dal 2025. Mentre in Kazakistan, il presidente cinese si è portato a casa accordi di cooperazione energetica per trenta miliardi di dollari, con tanto di ingresso nei giacimenti di petrolio di Kashagan da parte del colosso di stato China National Petroleum Corporation.

(Scritto per Uno sguardo al femminile)



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