sabato 10 marzo 2012

10 marzo 1959


("Nessuno è nato sotto una cattiva stella; ci sono semmai uomini che guardano male il cielo.")


L'Accordo dei Diciassette Punti, noto ai cinesi come Trattato di liberazione pacifica del Tibet, è un trattato che fu firmato a Pechino il 23 maggio 1951 dai delegati del Tibet e della Repubblica Popolare Cinese con il quale i rappresentanti tibetani riconobbero la sovranità cinese sul territorio tibetano.
Il governo di Lhasa si vide costretto a sottoscriverlo dopo l'invasione del Tibet Orientale, noto come Kham occidentale, da parte dell'Esercito Popolare di Liberazione cinese avvenuta il 6 ottobre del 1950, e la successiva minaccia che l'invasione si sarebbe estesa in tutto il Tibet in caso di mancata accettazione dell'accordo stesso.

I punti principali dell'accordo prevedevano:
1 il riconoscimento della sovranità cinese sul territorio tibetano, del quale veniva sancito ufficialmente l'ingresso nella neonata Repubblica Popolare Cinese
2 l'istituzione in territorio tibetano di un comitato militare e amministrativo nonché di un quartier generale di comando della regione militare gestiti dal governo di Pechino
3 le garanzie cinesi sull'autonomia regionale del Tibet nelle questioni interne e la salvaguardia della locale cultura
4 un piano di riforme da parte del governo cinese che si impegnava ad inserirle gradualmente nella vita del paese
5 il graduale inserimento delle forze armate tibetane all'interno dell'esercito cinese
la gestione dei rapporti del Tibet con l'estero da parte del governo cinese

Venne siglato da una delegazione di cinque rappresentanti del neoeletto Dalai Lama (cui spettava sia il potere politico che religioso in Tibet) guidata dal governatore dell'occupato Tibet Orientale Ngapoi Ngawang Jigme, e dalla delegazione cinese guidata dal plenipotenziario Li Weihan, ministro della commissione per gli affari delle nazionalità, completata da due gerarchi militari e dal responsabile politico per gli affari del sud-ovest.

In seguito, specialmente dopo la rottura dei rapporti tra il governo cinese ed il Dalai Lama, avvenuta nel 1959 contestualmente alla sua fuga ed all'autoesilio in India, esponenti del governo tibetano avrebbero denunciato l'unilateralità dell'accordo, stilato dai cinesi senza acconsentire alcun emendamento ai delegati tibetani, dichiarando che questi erano presenti per negoziare e non per firmare, ed avrebbero attribuito l'invio del telegramma del 24 ottobre non al Dalai Lama ma all'inviato cinese in Tibet delegato all'attuazione dell'accordo e ai rapporti con la corte tibetana.
La difficoltà di comprensione del reale valore dell'accordo è accentuata dal conflitto interno che si generò tra l'ala intransigente tibetana, di cui facevano parte il Primo Ministro Lukhangwa ed i ribelli che si organizzarono autonomamente contro i cinesi, ostile al trattato nella sua integrità, e la posizione dello stesso Dalai Lama e di una parte degli ecclesiastici vicina al patriarca, che negli otto anni di permanenza in Tibet dopo la firma dell'accordo tentarono senza successo di assecondare il piano cinese per acquisire dei vantaggi alla causa nazionale, e scongiurare la continua minaccia di invasione integrale del paese.
Secondo il tibetologo ed antropologo americano Melvyn Goldstein, se da un lato l'accordo può essere definito valido da un punto di vista giuridico, perché fu firmato dai convenuti senza che questi venissero obbligati con la violenza fisica, dal punto di vista formale le obiezioni in merito all'effettiva autorità dei delegati tibetani a sottoscrivere il documento sono reali e ne compromettono la validità.

L'accordo dei 17 punti fu un diktat imposto dal governo di Pechino, dopo che l'esercito cinese aveva sbaragliato le esigue guarnizioni tibetane di frontiera ed occupato la capitale della regione tibetana del Kham occidentale Chamdo, che si trova nella parte orientale dell'attuale Regione Autonoma del Tibet, del quale è la terza città in ordine di grandezza.
L'occupazione militare cominciò il 7 ottobre 1950 contro un paese praticamente privo di infrastrutture, di telecomunicazioni, di industrie e dotato di un esercito composto di soli 8.000 uomini che svolgeva principalmente le funzioni solitamente riservate alla polizia.
I cinesi giustificarono tale atto con la necessità di sradicare dal territorio, su cui rivendicavano la sovranità, il sistema feudale basato sulla servitù della gleba e sullo schiavismo, anacronistici elementi inaccettabili dalla linea politica del governo di Pechino. Pur riconoscendo l'esistenza di tale sistema in Tibet, le autorità di Lhasa controbatterono che esso era vietato dalle leggi ed erano state programmate delle iniziative per estirparlo, aggiungendo che comunque il tenore di vita delle popolazioni era accettabile perché nessuno aveva mai patito la fame.

Già nel dicembre del 1950 si registrarono le prime violenze contro la popolazione della zona occupata e dei territori tibetani in mano cinese prima dell'invasione, nelle province del Sichuan, Qinghai, Gansu e Yunnan, a cui non era stato riconosciuto il privilegio dell'inserimento graduale delle dure riforme del nuovo governo cinese. La resistenza in questi territori implicò la soppressione dei monasteri lamaisti i cui monaci si posero spesso a capo delle rivolte contro le truppe di occupazione.
Nel 1951 iniziò la guerriglia tibetana contro gli invasori, che - in settembre - avevano militarizzato e incorporato nell'amministrazione cinese il territorio occupato, a cui venne dato il nome di "territorio a statuto speciale di Qamdo"

Nell'ambito del programma di cinesizzazione dei territori conquistati, dal 1952 il governo di Pechino promosse un trasferimento di popolazione han all'interno del territorio tibetano,[12] sia incentivato che coatto, che fu una delle cause scatenanti la rivolta tibetana di Lhasa del marzo del 1959, soffocata dai cinesi in un bagno di sangue.
Questi scontri provocarono nello stesso mese la fuga e l'esilio in India del Dalai Lama e del suo governo,[12] nonché la rottura dell'accordo da parte dei cinesi, che occuparono militarmente anche il resto del Tibet.
Si giunse così alla denuncia dell'accordo dei 17 punti sia da parte cinese che da parte tibetana. Il Dalai Lama proclamò che la firma fu estorta con la forza ed i cinesi dichiararono illegale il governo tibetano il 28 marzo 1959. Quasi contemporaneamente il Dalai Lama formò un nuovo governo provvisorio in esilio che si installò nel 1960 a Dharamsala in India.
Dopo gli scontri di Lhasa e l'esilio della corte tibetana ci fu una svolta nel rapporto tra il governo centrale cinese ed i territori tibetani occupati: fu cancellato il programma di inserimento graduale delle riforme che furono imposte fin dall'inizio con la forza. La repressione con cui le truppe cinesi fecero rispettare tali disposizioni assunse proporzioni mai viste prima. La religione fu considerata contraria ai principi di tale riforme e fu imposto l'ateismo di Stato.
Dal 1962 venne quasi del tutto revocato l'utilizzo negli atti pubblici della lingua tibetana, della quale fu decretata la cessazione dell'insegnamento a livello scolastico. Dal 1963 l'ingresso nel Tibet venne precluso agli stranieri con un divieto che durò fino al 1978.
Sebbene mai abrogato, questo trattato venne semplicemente "congelato" dai cinesi a partire dal 1959 dopo la fuga in India del Dalai Lama, e perse a tutti gli effetti d'efficacia a partire dal 1965 con l'istituzione della TAR, la Regione Autonoma del Tibet, che rappresenta la decadenza delle residue autonomie tibetane ed il completo assoggettamento al controllo centrale di Pechino che tuttora perdura.

(Fonte: Wikipedia)

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