venerdì 9 marzo 2012

La Cina dei laowai, tra apertura e chiusura

(Scritto per Uno sguardo al femminile)


Lo scorso febbraio si sono tenuti i festeggiamenti per il ventennale del “nanxun”, il viaggio nel Sud della Cina con il quale Deng Xiaoping volle dare nuovo vigore alle riforme di apertura giunte in una fase di stallo dopo i tragici eventi di piazza Tiananmen. La “politica della porta aperta” e l’introduzione del libero mercato rappresentarono i pilastri della politica attraverso la quale il Piccolo Timoniere ha traghettato il Paese verso una nuova era, liberandolo dai lucchetti dell’epoca maoista.

In principio fu la formula “un Paese, due sistemi“, che consentì di approdare, tra il 1984 e il 1987, agli accordi con Londra e Lisbona per il ritorno di Hong Kong e Macao alla madrepatria avvenuto rispettivamente nel 1997 e nel 1999. I due territori sarebbero diventati “zone economiche speciali” (Zes) dotate di un alto grado di autonomia nonché di poteri legislativi e giudiziari indipendenti. Una volta aperte le danze, seguirono le regioni meridionali del Guangdong e del Fujian, Zhuhai, Shenzhen, Shantou e Xiamen, per ultima poi, nel 1988, l’intera isola di Hainan insignita del titolo di provincia. Un Eldorado per gli investitori esteri, agevolati da una serie di trattamenti preferenziali, un’inesauribile fonte di carburante per la locomotiva Cina della quale avrebbe assicurato la corsa attraverso circa un ventennio.

Dal 1979, data in cui vennero ufficialmente dischiusi i cancelli, un fiume di capitali, tecnologia e modelli di gestione si è riversato entro i confini della Grande Muraglia, sospingendo l’economia cinese ad un ritmo medio annuo del 9,8. Dopo appena dieci anni, gli investimenti d’oltre mare avevano raggiunto la soglia dei 242,3 miliardi di dollari, facendo guadagnare al Dragone il secondo posto, preceduto soltanto dagli Stati Uniti, tra le mete più ambite degli affaristi internazionali. Medaglia d’argento anche per riserve in valuta estera con 140,5 miliardi di dollari, tallonando da vicino il Giappone primo della classe.

A trent’anni dalle manovre liberiste del “piccolo uomo”, i numeri si confermano in rapida crescita. Secondo quanto riportato dalla stampa nazionale lo scorso giugno, sarebbero più di 230 mila i lavoratori stranieri in Cina a possedere un regolare permesso di lavoro; una situazione, questa, che ha convinto i piani alti del potere a riprendere in mano la legge sulla previdenza sociale per fare qualche passo avanti verso l’ugualianza tra cittadini cinesi e lavoratori stranieri. Secondo il sistema di previdenza sociale della Repubblica Popolare, il quadro assicurativo comprende 5 tipologie che consistono nella pensione di base, l’assicurazione medica, quella sulla disoccupazione, sugli infortuni sul lavoro e di maternità. Tra le suddette cinque categorie, i premi per l’assicurazione di base, quella sanitaria e quella contro la disoccupazione ricadono sotto l’esclusiva responsabilità del datore di lavoro, il quale è anche tenuto a versare un fondo abitazione.

Prima della Insurance Law, entrata in vigore il 1 luglio del 2011, nessun regolamento imponeva ai dipendenti stranieri l’acquisto di assicurazioni sociali, fatta eccezione per la copertura contro gli incidenti sul lavoro. Il disegno di legge spiega più chiaramente che la partecipazione al nuovo regime assicurativo è prevista per quegli stranieri “legalmente impiegati in imprese, istituzioni pubbliche, gruppi sociali,unità private non aziendali, fondazioni, studi legali e società di revisione contabile che siano incorporati o registrati secondo le leggi cinesi”. Inoltre la bozza sottolinea che ad usufruire del nuovo regime assicurativo saranno anche i cittadini stranieri impiegati in uffici di rappresentanza cinesi o in rami di aziende estere. A differenza di quanto avvenuto in passato, quando la partecipazione era richiesta solo ai datori di lavoro delle aree urbane, oggi la normativa è stata estesa su scala nazionale.

Il 10 giugno 2011 il progetto di legge era stato pubblicato online al fine di sollecitare i commenti dell’opinione e gli esiti non sono stati probabilmente quelli sperati. Tra i principali oppositori della nuova legge, tutti coloro che avendo già pagato il premio assicurativo secondo le norme previste dalla nazione d’origine si trovavano così a dover far fronte ad una doppia spesa. Un inconveniente al quale il governo Pechino ha intenzione di porre fine attraverso negoziati bilaterali. Germania e Corea del Sud sono state le prime a beneficiare degli accordi di assicurazione sociale rispettivamente nel 2001 e nel 2003, mentre Giappone Francia e Belgio sono già in fila in attesa del loro turno.

Altro nodo al pettine, la questione dell’età pensionabile che, oltre ad essere differente in ogni Paese, rimane per molti un traguardo mai raggiunto per via di un ritorno anticipato in patria. Anche riguardo a cio’ il governo cinese ha cercato di mettere una pezza. Secondo le disposizioni transitorie, infatti, i lavoratori stranieri che lasceranno la Cina prima dell’eta’ legale prevista potranno decidere se mantenere i loro conti pensionistici, i quali verranno riattivati una volta fatto ritorno nel Regno di Mezzo, oppure chiudere il loro “insurance account” e ricevere un pagamento forfettario dei fondi pensione. In caso di decesso poi, il bilancio dei conti potra’ essere ereditato secondo quanto previsto dalla legge.

“La richiesta del pagamento dei contributi per gli stranieri in Cina e’ conforme alla prassi internazionale e mira a proteggere gli interessi dei lavoratori stessi”, ha precisato un funzionario del Ministry of Human Resources and Social Security (MHRSS), nel tentativo di gettare acqua sul fuoco.

Assorbire in maniera controllata l’ondata migratoria di cittadini d’oltre mare sembra essere divenatata una priorita’ per Pechino che, per la prima volta nella storia, nel novembre 2010 ha introdotto gli stranieri nel censimento nazionale (全国人口普查). Ma se da una parte il Dragone guarda con crescente interesse ai talenti stranieri, dall’altra il flusso di laowai (stranieri) entro i confini della Grande Muraglia viene ancora centellinato con il conta gocce. Lo dimostra la tanto dibattuta Green Card -ad immagine e somiglianza della sua omonima americana- introdotta nel 2004 con lo scopo di concedere il diritto di lavorare e risiedere in Cina per lunghi periodi senza necessita’ di visto, e che e’ ancora al centro di accese polemiche. Un privilegio per pochi magnati dell’economia, con le mani in pasta e capaci di attirare ingenti somme di capitali nel Paese.

Secondo le disposizioni attuate nell’agosto 2004 i possibili “tesserati” sarebbero dovuti essere manager dirigenti aziendali, scienziati e tecnici, investitori e i loro nuclei familiari, con una corsia preferenziale per coloro già in possesso del permesso di residenza a lungo termine (5 anni con possibilità di rinnovo). Ma, di fatto, come hanno evidenziato in molti, la Green Card è stata e continua ad essere per i più un sogno irrealizzabile. Insomma, i veri benevenuti sono capitali e know-how, quanto ai loro portatori sani l’accoglienza è decisamente meno calorosa. Nel novembre del 2005, delle 1.835 richieste solo 687 hanno ricevuto il placet di Pechino, come rilevato dal ministero di Pubblica Sicurezza, mentre il numero delle città e delle contee aperte agli stranieri aveva già raggiunto la soglia delle 2.650, pari al 95% dell’intero Paese.

E a tutti quelli che lamentano l’eccessiva severità del sistema, Cui Zhikun, direttore del Bureau ha risposto: “La Cina non vuole incentivare l’immigrazione. Le nuove procedure hanno il solo scopo di attrarre personale straniero di alto livello”. E i loro capitali, a giudicare dalle ultime misure adottate in materia di investimenti esteri. Attraverso l’Announcement [2012] N°4 rilasciato il 29 gennaio scorso, L’Amministrazione Genenerale delle Dogane cinesi ha fatto chiarezza sul trattamento privilegiato concesso alle foreign-invested partnership (FIP) per quanto riguarda l’import tax. A partire dal 30 gennaio le FIP (inclusi aumenti di capitale), rientranti nella categoria “incoraggiate” del “Foreign Investment Industrial Guidance Catalog 2011”, sono esenti dai dazi doganali sull’importazione di materie e tecnologia, accessori e pezzi di ricambio, così come stabilito dagli accordi in materia, salvo continuare ad essere soggette all’imposta sul valore aggiunto (IVA) da riscuotere al momento dell’importazione di tali prodotti.

In seguito all’aumento dei costi della manodopera nazionale, negli ultimi anni migliaia di persone poco qualificate provenienti da Vietnam, Myanmar e Africa si sono riversate nelle province del Guanxi e del Guangdong andando a riempire posizioni mal retribuite. Una situazione, questa, tutta a sfavore dei lavoratori cinesi privati di potenziali posti di lavoro, che ha messo in allarme Zhongnahai.

Ma quali poterebbero essere i rischi di una politica eccessivamente restrittiva nei confronti del fenomeno immigrazione? Oliver Pearce della rivista indipendente Caixin non ha dubbi. Da una prospettiva di lungo periodo la Cina rischia di incappare nella stessa trappola del Giappone: “l’invecchiamento della popolazione unitamente al crollo del tasso delle nascite si stanno trasformando in una bomba ad orologeria”, caricata ulteriormente dal blocco esercitato sul settore sanitario e sui lavori meno qualificati ai quali gli stranieri non possono accedere. Non solo un fattore stabilizzante, dunque, l’afflusso di stranieri se sapientemente dosato potrebbe essere in grado di alleviare diverse spine nel fianco del Dragone.

La “politica del figlio unico”, oltre ad aver attirato su Pechino gli strali di buona parte delle Associazioni per la tutela dei diritti umani, rischia di rivelarsi un’ennesima vittoria di Pirro: il crescente squilibrio tra i sessi e l’alto tasso d’invecchiamento della popolazione minacciano di creare una serie di instabilità sociali potenzialmente molto pericolose. E proprio la veneranda età del Dragone si sta rivelando uno degli ostacoli più insidiosi per la crescita economica del Paese, un ostacolo che la forza lavoro dei laowai potrebbe aiutare ad aggirare.

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