martedì 22 ottobre 2013

Cineitaliani


(L'articolo verrà pubblicato su Uno sguardo al femminile di novembre)

Era il 1920 o forse il 1924, quando a Milano si insediarono i primi 40 immigrati in arrivo dalla Cina. I pionieri della comunità cinese più antica d'Italia erano tutti maschi. Tutti provenienti dalla provincia meridionale del Zhejiang, oggi nota come la fucina del made in China che fa tremare le eccellenze nostrane. Prima venditori ambulanti di cravatte di seta e borsellini, poi operai nei laboratori tessili e di pellame italiani, infine proprietari di un'attività nata spesso grazie a quell'esperienza maturata nelle fabbriche italiche di inizio secolo.

La storia dei migranti cinesi nel Belpaese comincia proprio dal capoluogo lombardo. E non è un caso che tutt'oggi la Lombardia si attesti come la regione italiana più "cinese, con 13.000 attività. Al 31 dicembre 2012 i Cinesi a Milano erano 19.315, in aumento di 400 unità rispetto al 2011. La stampa di casa nostra -che ama indugiare sulle note di colore (sic!)- ci ricorda che tra i cognomi milanesi più frequenti quest'anno l'italianissimo Rossi e Hu si sono contesi il primato, mentre all'ottavo e nono posto si sono classificati rispettivamente Chen e Zhou, tutti tipici nomi di famiglie cinesi.

Cosa fanno da noi questi Hu, questi Chen, questi Zhou e gli altri loro connazionali? Sostanzialmente, aprono negozi. Secondo recenti statistiche della Cgia di Mestre, nel 2012 i negozi cinesi hanno superato le 62.200 unità, registrando un +34,7% su base annua. I settori privilegiato dai cinesi sono il commercio con 23.500 attività, il manifatturiero, con poco più di 17.650 imprese, e la ristorazione, con 12.500 attività. Ma la nuova tendenza sembra essere quella dei centri massaggi, estetici e dei parrucchieri, per un numero totale di quasi 2.500 unità. Non molto forse, ma se si pensa che il settore dei servizi alla persona ha riportato un aumento del 38,8% soltanto tra il 2011 e il 2012...

Oltre alla Lombardia, le regioni più interessate dalla "colonizzazione" cinese sono la Toscana che ospita 11.350 imprese, il Veneto (7.500) e l'Emilia Romagna (6.460).

I numeri sull'immigrazione in arrivo dall'ex Impero Celeste costituiscono soltanto poche gocce in un mare panasiatico che ha visto 942.443 mila persone lasciare il continente più grande e popoloso del mondo per cercare fortuna nel nostro paese. Secondo si legge nel recente dossier compilato dal Centro Studi e Ricerche Idos e da MoneyGramvolume, la top twenty dei paesi per numero di residenti nella Penisola vanta ben sei nazioni asiatiche: Cina (29,5%), Filippine (16,2%), India (15,4%), Bangladesh (11,3%), Sri Lanka (10,0%) e Pakistan (9,6%mila). Cifre che pongono l'Italia in cima alla classifica dei paesi Ue per numero di presenze asiatiche.

Allo stesso tempo sembra che anche le rimesse in partenza dallo Stivale vadano a finire per quasi la metà verso l'Estremo Oriente (3,2 miliardi di euro), in gran parte verso la Cina (2,5 miliardi, +5,4%) e le Filippine (601 milioni di euro, -39%).

Per qualcuno questi numeri agitano la minaccia di un rivale che gioca sporco, laddove le attività economiche cinesi entrano in concorrenza con quelle nostrane con prodotti a basso costo. Per non parlare delle attività illegali proliferate nella "Repubblica Popolare Cinese di Prato", sede da anni di un'accesa disputa tra residenti locali e immigrati cinesi (metà dei bambini che ogni anno nascono a Prato hanno gli occhi a mandorla, e questo sembra infastidire non poco i cittadini con gli occhi rotondi).

Per altri, con particolare fiuto per gli affari, questo vasto bacino di potenziali acquirenti/consumatori d'oltreconfine ha ispirato nuove iniziative imprenditoriali ben mirate. E' il caso di www.vendereaicinesi.it (link), sito gestito da Alessandro Zhou e Simone Toppino, che raccoglie inserzioni in italiano e le traduce in mandarino (alla modica cifra di 39euro), per facilitare l'accesso dei cinesi ad annunci che altrimenti non sarebbero in grado di leggere. Perché ai cinesi? Non soltanto perché sono tanti e sempre di più, non soltanto perché al momento hanno maggiore disponibilità e liquidità degli italiani, ma anche perché possono usufruire di un capillare network di creditori (amici, parenti, conoscenti) aggirando così le lungaggini dei canali bancari. Comprano in tempi rapidi e pagano, sopratutto- onde evitare di "perdere la faccia", che in Cina è il disonore peggiore in cui si possa incorrere.

A questo punto ci si potrebbe chiedere perché mai questi nuovi ricchi cinesi dovrebbero investire nel nostro paese quando gli stessi italiani levano le tende per cercare la fortuna all'estero. Nel 2012 l'emigrazione dalla Penisola ha registrato un +30% rispetto all'anno precedente, coinvolgendo 78.941 italiani contro i 60.635 del 2011. 9mila i giovani già sbarcati nella sola Cina continentale (quindi senza contare Hong Kong e Taiwan), attratti dalle possibilità offerte da una crescita economica in rallentamento, ma pur sempre ben oltre la soglia del 7% (gli ultimi dati dell'Istituto nazionale di statistica parlano addirittura di un 7,8% tra luglio e settembre, contro il 7,5% del trimestre precedente). Ebbene, questa stessa domanda se la debbono essere fatta anche i cinesi.

Come riportava lo scorso gennaio il Financial Times, sembra infatti che nella Chinatown romana, la più corposa insieme a quelle di Milano e Prato (13.382 membri al 31 dicembre 2011) le serrande continuino ad abbassarsi. Sempre più cinesi della prima generazione, quelli giunti più di vent'anni fa, stanno lasciando l'Esquilino per tornare in patria o emigrare in qualche altra parte del globo; Africa e Sud America le mete più gettonate. Per qualcuno è un addio, per altri un arrivederci. "Molti hanno il premesso di soggiorno e non vogliono buttarlo così" conferma al Corriere della Sera il consigliere dell'ambasciata della Repubblica popolare Yao Cheng "c'è chi va via, ma parecchi sono pronti a tornare se l'economia riprende a tirare". A chiudere sono sopratutto negozi di vestiti e casalinghi, mentre tiene duro il settore della ristorazione,

Intanto sarebbero già tra i 2.000 e i 3.000 i cinesi fuggiti dalla capitale; circa il 60% dei primi arrivati a Roma, secondo Lucia Hui King, presidente della Federazione delle associazioni cinesi in Italia e portavoce della comunità cinese nella capitale: "Perlopiù uomini adulti, che lasciano qua moglie e figli per cercare lavoro nell'economia che tira in madrepatria. In altri casi resta qua il marito e la famiglia torna dai parenti in Cina". "Su 600 esercizi che ci sono intorno a piazza Vittorio, secondo me il 10% ha chiuso..." continua Sarah Furong, giornalista della rivista Il tempo Europa Cina.

Ma non sono soltanto i commercianti a lasciare. Un impiegato della sede romana dell'agenzia di stampa cinese Xinhua, rivela a Uno sguardo al femminile di essere in procinto di partire per Pechino. Un viaggio di due settimane che gli darà la possibilità di tastare il terreno e, nel caso, prendere in considerazione -dopo ben otto anni di Italia- un rimpatrio. A fronte di possibili migliori guadagni, tuttavia, una vita in Cina implicherebbe costi non indifferenti per quanto riguarda l'assistenza sanitaria e l'istruzione dei suoi due figli. Entrambi punti cruciali sui quali la nuova leadership, promotrice di un sogno tutto cinese, dovrà ancora lavorare parecchio.













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