giovedì 31 ottobre 2013

Ancora Tian'anmen


Nella giornata di lunedì, un SUV con a bordo tre persone proveniente da Nanchizi Street imbocca la Chang'an, il viale che separa la Tian'anmen (La Porta della Pace Celeste) dalla piazza. Percorre a gran velocità il corridoio pedonale per 400 metri travolgendo la folla, infine si schianta contro una colonna davanti alla Città Proibita, prendendo fuoco. I tre passeggeri più due passanti muoiono, 40 persone rimangono ferite.

E' quanto racconta l'agenzia di stampa statale Xinhua, mentre la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying definisce l'accaduto "un incidente".

A Pechino è mezzogiorno, l'ora in cui i controlli nella capitale sono più rilassati, anche nel suo centro nevralgico: la Tian'anmen, dove giocava l'ultimo imperatore prima di venire sfrattato nel 1911, durante la rivoluzione guidata da Sun Yat-sen. Poi divenuta sede di rimostranze politiche, da quando Mao Zedong, il 1 ottobre 1949 annunciò alla piazza in visibilio la nascita della Repubblica popolare cinese. Passata tristemente alle cronache per aver fatto da sfondo alla repressione del 4 giugno 1989, e tutt'oggi luogo di ritrovo per chi vuole inoltrare le proprie rimostranze al governo.

L'ultimo episodio eclatante risale al 2011, quando un uomo si diede fuoco "per lo scontento in seguito ad un procedimento legale in un tribunale locale" (versione ufficiale). Allora la notizia venne tenuta segreta, fino a quando il Telegraph non uscì con un'esclusiva realizzata grazie alla segnalazione di un testimone oculare. Stavolta però è diverso. I media di Stato giocano a carte (semi)scoperte. La censura su internet c'è ma è parsimoniosa. Tentativi di rilasciare report indipendenti finiscono sotto la scure del Dipartimento centrale della Propaganda, anche quando a osare è l'ufficialissimo Quotidiano del Popolo. "Ribadiamo che i media debbono attenersi strettamente a quanto riportato dalla Xinhua" scandisce il "Ministero della Verità"  Non sminuire la storia; non speculare su di essa, non metterla in prima pagina o sulla homepage dei siti. Non pubblicare ulteriori racconti o commenti sull'accaduto. Non utilizzare immagini e rafforzare il lavoro sull'account Weibo dei media e del loro personale". Sul Twitter cinese qualcuno vedrà i propri post volatilizzarsi nel giro di pochi minuti; altri, invece, verranno risparmiati.

Nella girandola di supposizioni, dopo poche ore la narrazione ufficiale comincia a segnare una direzione ben precisa: segna Ovest. Quelle che erano soltanto ipotesi mercoledì trovano conferma nelle dichiarazioni dei media governativi. La CCTV è la prima a parlare di "attacco terroristico" ben premeditato. Cinque sospetti in stato di fermo "a sole 10 ore dall'incidente" -che incidente sembra proprio non essere- hanno confessato la loro implicazione negli eventi di lunedì. Nelle loro case sono stati rinvenuti coltelli e una bandiera della jihad, così come nella jeep incendiatasi a Tian'anmen. I tre passeggeri del SUV, così come i cinque arrestati sono uiguri, etnia minoritaria turcofona e di religione islamica concentrata nello Xinjiang, la provincia polveriera del selvaggio West che separa la Cina da India, Pakistan, Russia, Mongolia, Kazhakistan, Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan. Almeno una delle persone in stato di fermo è di Lukqun, la città dove lo scorso 26 giugno scontri tra la popolazione locale e le forze dell'ordine hanno fatto decine di morti.

Il terrore di Pechino
Lo Xinjiang è una delle spine nel fianco che più tormentano il Dragone da quando nel 2009 circa duecento persone persero la vita in un massacro collettivo tra uiguri e han, l'etnia dominante in Cina. Da quel momento mantenere la sicurezza nell'area è diventata una priorità per il governo centrale, che attribuisce i disordini a forze indipendentiste strettamente legate a movimenti terroristici dell'Asia Centrale. A seguito degli scontri la regione venne blindata, le linee telefoniche e di internet bloccate. Nel 2011 terroristi reclamarono la paternità di due attentati avvenuti a Kashgar, città che sorge presso un'oasi del deserto Taklamakan, rivelando un filo diretto con l'East Turkestan Islamic Movement, gruppo eversivo che ricevette il sostegno dell'Unione Sovietica durante la crisi tra Mosca e Pechino (1960-1989). Al tempo il Dragone accusò l'Unione Sovietica di "progettare rivolte", ammassando le proprie truppe al confine russo, e decise di rafforzare i controlli nella regione. Più recentemente L'ETIM -che ha campi d'addestramento in Pakistan e pare tenga anche esercitazioni con i ribelli in Siria- è finito nel mirino di Washington e Islamabad in seguito all'attentato dell'11 settembre, per via di un presunto collegamento con la cellula terroristica di al-Qaeda. Diversi membri ritenuti al comando del movimento sarebbero poi rimasti uccisi in attacchi droni nella regione pakistana del Waziristan. Sebbene l'esistenza stessa dell'organizzazione sia stata da molti messa in discussione, l'instabilità dello Xinjiang ha spinto il governo ad assumere misure eccezionali. Lo scorso anno il capo del Partito locale,  Zhang Chunxian, aveva rivelato un piano che prevede la disposizione di polizia armata ogni cento metri nelle aree urbane.

Secondo il gruppo in esilio World Uyghur Congress, fonte non sempre attendibile, i servizi segreti cinesi avrebbero già arrestato 93 uiguri a Pechino nel nuovo giro di vite post-Tian'anmen. Tuttavia, ad oggi, nessuna organizzazione collegata alla minoranza xinjianese sembra aver rivendicato l'attentato di lunedì. Nel caso in cui le accuse del governo si rivelassero fondate si tratterebbe del primo atto eversivo ufficialmente messo a segno dagli uiguri nella capitale dal 1997, anno in cui una bomba su un autobus nel distretto di Xidan chiuse una serie di dimostrazioni simili avvenute a Urumqi, capitale dello Xingjiang. Sebbene al tempo dissidenti uiguri di stanza in Turchia attribuirono il gesto a loro compatrioti residenti in Kazakistan, le autorità di Pechino smentirono ogni collegamento con la regione occidentale. Anche se nei fatti furono messe in atto diverse misure volte a emarginare i xinjianesi dal resto della popolazione.

Questa volta il regime pare aver optato per la pista del terrore, a costo di riconoscere la fragilità dei propri apparati di sicurezza interna, per i quali il governo nel 2013 ha stanziato un budget da 128,9 miliardi di yuan. Meglio incolpare l'ETIM che interpretare l'incidente di Tiananmen come un gesto disperato, segno del crescente malcontento popolare.


Terroristi o disperati?
Secondo la leader del Congresso Mondiale Uiguro, l'episodio di lunedì richiede "un'indagine internazionale" che confermi la matrice terroristica dell'incidente, mentre intellettuali xinjianesi prendono le distanze dall'ETIM affermando che questo oggigiorno ha un'influenza molto limitata sulla popolazione locale, sebbene eserciti ancora un certo fascino sulle frange più povere residenti nell'area meridionale dello Xinjiang. Il pericolo è che l'ultimo episodio venga strumentalizzato dal governo cinese per reprimere con più forza la minoranza etnica, rimasta fino ad oggi largamente ignorata dalla comunità internazionale, ma che similmente a quella tibetana è da anni vittima delle coercizioni di Pechino. La protesta che portò alle violenze del 2009 nacque dalla decisione del governo cinese di radere al suolo il centro storico di Kashgar adducendo il pretesto di un "ammodernamento delle infrastrutture e messa a norma degli edifici secondo standard anti-sismici". La capitale dello Xinjiang rientra in un programma di rivalutazione dell'occidente cinese in atto ormai da diverso tempo. E' dal 2010 che Kashgar si trasforma lentamente per divenire una Shenzhen dell'Ovest; una zona economica speciale che -nei piani di Pechino- dovrà fare da locomotiva alla crescita della regione (si consiglia la lettura di Kashgar on the move)

Il processo di "sinizzazione" dell'area -tradottosi in una massiccia presenza han nella regione, ormai circa il 40% della popolazione locale- trova la sua giustificazione sotto terra: la regione, che è la più estesa della Repubblica popolare, è ricca di materie prime, petrolio e gas. Proprio lo scorso maggio la Xinhua ha annunciato la scoperta di una miniera di oro nella contea di Xinyuan del valore di 20 miliardi di yuan (un po' più di 3 miliardi di dollari).

Per facilitare l'integrazione "pacifica" della minoranza uigura Pechino sta cercando di estirpare le radici culturali e religiose degli uiguri. Tra gli ultimi provvedimenti la collocazione della bandiera cinese nelle moschee sopra il Mihrab, come hanno denunciato alcuni attivisti xinjianesi, mentre pochi giorni fa 139 uiguri sono stati arrestati con l'accusa di aver diffuso il jihad nel Paese, sulla scia della nuova campagna anti-rumor che sta terrorizzando il web cinese.

Le storie di ordinaria repressione vissute nello Xinjiang raramente arrivano alle orecchie della comunità internazionale. Gli uiguri non hanno un portavoce di fama mondiale come il Dalai Lama, né hanno lasciato una lunga scia di fuoco come i monaci martiri del Tibet. Forse serviva proprio un gesto eclatante per richiamare l'attenzione su quella regione sperduta a cavallo tra Medio ed Estremo Oriente. Un'immolazione sotto gli occhi di Mao, nel cuore politico di Pechino.

(Per approfondimenti sul Xinjiang Diario di un Xinjianese)
















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