Mentre la seconda economia mondiale ha fatto passi da gigante nella tutela della donna all'interno del sacro vincolo - dopo l'abolizione del concubinato e dei matrimoni infantili del 1950, e l'introduzione del divorzio "per motivi di incompatibilità" nel 1980, lo scorso 1 marzo la Repubblica popolare si è dotata di una normativa specifica sulle violenze domestiche - il dibattito degli ultimi tempi ha riacceso i riflettori sull'escalation misogina di cui si sono resi responsabili non soltanto neoconfuciani, ma anche noti accademici e commentatori acclamati come il blogger Han Han. Va da sé che, sebbene in buona compagnia, Confucio (551 a.C. – 479 a.C) e la sua visione gerarchica della società - basata su cinque relazioni di sudditanza padre-figlio; fratello maggiore-fratello minore; principe-suddito; marito-moglie: amico più anziano-amico più giovane - siano diventati bersaglio di aspre critiche.
Nel corso della storia femminismo e confucianesimo hanno sempre seguito strade divergenti; il primo è stato esaltato quando il secondo veniva fatto a pezzi nel ricordo di una Cina "old style" umiliata dall'occupazione ottocentesca delle potenze occidentali. Tanto durante il Movimento di Nuova Cultura (4 maggio 1919) quanto durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976), la spinta modernizzatrice è stata accompagnata da un rifiuto della tradizione confuciana unitamente alla nascita di un sentimento nazionalista e alla "riabilitazione" del gentil sesso, nell'ambito di un assorbimento selettivo di idee e valori provenienti da quell'Occidente imperialista davanti al quale l'ultima dinasta cinese era capitolata miseramente.
Ebbene, dopo decenni di oblio, da qualche anno il confucianesimo è tornato di moda tra l'establishment cinese in cerca di un nuovo collante ideologico in grado di colmare la disaffezione mostrata dalla Cina dell' “arricchirsi è glorioso” verso i valori socialisti. In un momento in cui Pechino spinge per una "grande rinascita della nazione" cinese (copyright Xi Jinping), il bagaglio valoriale da cui attingere non può che essere rigorosamente “made in China”. L'operazione di recupero era già iniziata con la trasposizione della pietà filiale in legge, per tentare di rispondere alle mancanze del welfare davanti al rapido invecchiamento della popolazione. Insomma, è quel che potremmo definire un confucianesimo riadattato al proverbiale pragmatismo cinese, da rispolverare quando le storture sociali diventano irraddrizzabili con mezzi istituzionali. Ma ci vuole abilità funambolica per evitare che il ritorno alle antiche tradizioni non sfoci nella riproduzione obsoleta di principi inapplicabili nella Nuovissima Cina.
È in questo complesso rimpasto ideologico che si inserisce una corrente di pensiero declinata alla rivalutazione del confucianesimo in chiave femminista, alla faccia di Jiang Qing & Co. Qui il ruolo della donna diviene quello di un "individuo socialmente connesso" al di fuori delle mura domestiche in un processo di reinterpretazione dei classici che - pur rasentando l'eterodossia - guarda caso, finisce per collimare perfettamente con l'agenda di Pechino. Ma facciamo un passo indietro. Confucio era davvero misogino?
Secondo Li-Hsiang Lisa Rosenlee, docente dell'Università delle Hawaii nonché autrice di "Confucianism and Women", il Confucianesimo di epoca pre-imperiale non presentava l'interpretazione in voga alle nostre latitudini del binomio yin-yang come espressione di femminilità e mascolinità. Nei testi pre-Han lo yin e lo yang erano parte di sei forze cosmiche (qi) "non gerarchiche né distinte su basi sessuali". È soltanto con la necessità di legittimare il figlio del Cielo (l'imperatore) che nei primi testi Han (206 a.C. al 220 d.C.) compare la contrapposizione tra l'asse yang-tian-nan (yang-Cielo-maschio) e quello ritenuto inferiore del yin-di-nü (yin-Terra-donna).
Né vi è traccia nei Diaoghi, il testo più noto della scuola del Maestro, di una sistematica discriminazione al di fuori del contesto matrimoniale, anche se la famiglia - sentenziava Confucio - è la riproduzione in scala minore della società. Stemperata la presunta misoginia del saggio di Qufu, il passaggio successivo consiste nell'adattare l'antica filosofia al processo di emancipazione femminile. Come?
"A differenza della predominante deontologia e dell'utilitarismo kantiano, l'etica della sollecitudine confuciana e quella propria del femminismo condividono alcune somiglianze importanti nel pensiero e nel ragionamento morale. Entrambe credono in un sé relazionale, basano gli obblighi morali sui rapporti umani. Entrambe sottolineano le disposizioni empatiche (ren) negli agenti morali e le connessioni interpersonali tra l'agente morale e il paziente morale", spiega a Left Li Chenyang, autore di The Sage and the Second Sex: Confucianism, Ethics, and Gender, nonché professore di filosofia presso la Nanyang Technological University di Singapore. "Per queste ragioni, nonostante le loro differenze, l'etica confuciana e la cura femminista possono essere collocati sullo stesso spartito a bilanciare la deontologia astratta e l'etica utilitaristica impersonale." Un rinnovato confucianesimo, arricchito di una sensibilità moderna, può aiutare le donne a raggiungere la parità di genere, suggerisce Li con il consueto pragmatismo cinese. "Ma si tenga presente che la parità di genere confuciana non azzera le diversità tra i sessi. L'armonia famigliare può essere raggiunta mantenendo la differenza di genere, purché questa non sfoci in disuguaglianza. Certo, questo non vuol dire che il confucianesimo sia l'unica dottrina in grado di aiutare le donne. Altre valide teorie etiche, sociali e politiche possono essere di sostegno".
È il grande ritorno delle sanjiao (le tre antiche scuole confuciana, taoista e buddhista di cui l'ateo governo di Xi Jinping si è fatto moderatamente promotore) ma non solo, dal momento che Li apre alla commistione di tradizioni native e straniere. Un punto, questo, che mette zizzania tra conservatori e liberal. Già nel 2010 il piano per la costruzione di un'imponente chiesa protestante a Qufu, il villaggio di nascita di Kong, deragliò in seguito all'insorgere xenofobo di un pugno di confuciani radicali. Da oltreconfine arrivano idee perniciose in grado di corrodere l'integrità nazionale, si pensa nei palazzi del potere in piazza Tian'anmen, da cui ultimamente sono partite direttive particolarmente restrittive nei confronti delle ideologie d'oltre Muraglia. La convinzione che la parità di genere sia un prodotto dell'Occidente è sfociata l'8 marzo 2015 nell'arresto di cinque giovani femministe, trattenute dalla polizia più di un mese - senza accuse formali - per sospetti contatti con "forze straniere".
Per smarcarsi dall'impiccio, Li-Hsiang Lisa Rosenlee ribalta il problema. Siamo proprio sicuri che il femminismo sia prerogativa dell'Occidente? La studiosa contesta l'enfasi posta dal femminismo mainstream sul "genere" a dispetto del concetto di "cultura". Una volta ammesso che la donna non è soltanto un essere dotato di una sessualità, ma è anche il prodotto del contesto culturale in cui nasce e cresce, quando le femministe occidentali tentano di applicare al mondo cinese categorie a loro familiari come fossero universali finiscono per ridurre uno studio interculturale ad uno sostanzialmente monoculturale - senza tenere conto, per esempio, della diversità di fondo che permea la filosofia occidentale ("individuo-centrica") e quella cinese (in cui l'individuo trova massima espressione soltanto nello svolgimento del proprio ruolo all'interno della società). Secondo Rosenlee, dietro quest'approccio si nasconde un sentimento neocolonialista-imperialista in cui i valori occidentali prevalgono su tutti gli altri. Una dicotomia fallace tra Occidente "emancipato" (problem solver) e resto del mondo "tradizionale e sessista" (problem creator), a cui il femminismo confuciano risponde con il recupero pragmatico della cultura cinese e un pizzico di nazionalismo. Proprio come piace ai nuovi mandarini di Pechino.
Nel corso della storia femminismo e confucianesimo hanno sempre seguito strade divergenti; il primo è stato esaltato quando il secondo veniva fatto a pezzi nel ricordo di una Cina "old style" umiliata dall'occupazione ottocentesca delle potenze occidentali. Tanto durante il Movimento di Nuova Cultura (4 maggio 1919) quanto durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976), la spinta modernizzatrice è stata accompagnata da un rifiuto della tradizione confuciana unitamente alla nascita di un sentimento nazionalista e alla "riabilitazione" del gentil sesso, nell'ambito di un assorbimento selettivo di idee e valori provenienti da quell'Occidente imperialista davanti al quale l'ultima dinasta cinese era capitolata miseramente.
Ebbene, dopo decenni di oblio, da qualche anno il confucianesimo è tornato di moda tra l'establishment cinese in cerca di un nuovo collante ideologico in grado di colmare la disaffezione mostrata dalla Cina dell' “arricchirsi è glorioso” verso i valori socialisti. In un momento in cui Pechino spinge per una "grande rinascita della nazione" cinese (copyright Xi Jinping), il bagaglio valoriale da cui attingere non può che essere rigorosamente “made in China”. L'operazione di recupero era già iniziata con la trasposizione della pietà filiale in legge, per tentare di rispondere alle mancanze del welfare davanti al rapido invecchiamento della popolazione. Insomma, è quel che potremmo definire un confucianesimo riadattato al proverbiale pragmatismo cinese, da rispolverare quando le storture sociali diventano irraddrizzabili con mezzi istituzionali. Ma ci vuole abilità funambolica per evitare che il ritorno alle antiche tradizioni non sfoci nella riproduzione obsoleta di principi inapplicabili nella Nuovissima Cina.
È in questo complesso rimpasto ideologico che si inserisce una corrente di pensiero declinata alla rivalutazione del confucianesimo in chiave femminista, alla faccia di Jiang Qing & Co. Qui il ruolo della donna diviene quello di un "individuo socialmente connesso" al di fuori delle mura domestiche in un processo di reinterpretazione dei classici che - pur rasentando l'eterodossia - guarda caso, finisce per collimare perfettamente con l'agenda di Pechino. Ma facciamo un passo indietro. Confucio era davvero misogino?
Secondo Li-Hsiang Lisa Rosenlee, docente dell'Università delle Hawaii nonché autrice di "Confucianism and Women", il Confucianesimo di epoca pre-imperiale non presentava l'interpretazione in voga alle nostre latitudini del binomio yin-yang come espressione di femminilità e mascolinità. Nei testi pre-Han lo yin e lo yang erano parte di sei forze cosmiche (qi) "non gerarchiche né distinte su basi sessuali". È soltanto con la necessità di legittimare il figlio del Cielo (l'imperatore) che nei primi testi Han (206 a.C. al 220 d.C.) compare la contrapposizione tra l'asse yang-tian-nan (yang-Cielo-maschio) e quello ritenuto inferiore del yin-di-nü (yin-Terra-donna).
Né vi è traccia nei Diaoghi, il testo più noto della scuola del Maestro, di una sistematica discriminazione al di fuori del contesto matrimoniale, anche se la famiglia - sentenziava Confucio - è la riproduzione in scala minore della società. Stemperata la presunta misoginia del saggio di Qufu, il passaggio successivo consiste nell'adattare l'antica filosofia al processo di emancipazione femminile. Come?
"A differenza della predominante deontologia e dell'utilitarismo kantiano, l'etica della sollecitudine confuciana e quella propria del femminismo condividono alcune somiglianze importanti nel pensiero e nel ragionamento morale. Entrambe credono in un sé relazionale, basano gli obblighi morali sui rapporti umani. Entrambe sottolineano le disposizioni empatiche (ren) negli agenti morali e le connessioni interpersonali tra l'agente morale e il paziente morale", spiega a Left Li Chenyang, autore di The Sage and the Second Sex: Confucianism, Ethics, and Gender, nonché professore di filosofia presso la Nanyang Technological University di Singapore. "Per queste ragioni, nonostante le loro differenze, l'etica confuciana e la cura femminista possono essere collocati sullo stesso spartito a bilanciare la deontologia astratta e l'etica utilitaristica impersonale." Un rinnovato confucianesimo, arricchito di una sensibilità moderna, può aiutare le donne a raggiungere la parità di genere, suggerisce Li con il consueto pragmatismo cinese. "Ma si tenga presente che la parità di genere confuciana non azzera le diversità tra i sessi. L'armonia famigliare può essere raggiunta mantenendo la differenza di genere, purché questa non sfoci in disuguaglianza. Certo, questo non vuol dire che il confucianesimo sia l'unica dottrina in grado di aiutare le donne. Altre valide teorie etiche, sociali e politiche possono essere di sostegno".
È il grande ritorno delle sanjiao (le tre antiche scuole confuciana, taoista e buddhista di cui l'ateo governo di Xi Jinping si è fatto moderatamente promotore) ma non solo, dal momento che Li apre alla commistione di tradizioni native e straniere. Un punto, questo, che mette zizzania tra conservatori e liberal. Già nel 2010 il piano per la costruzione di un'imponente chiesa protestante a Qufu, il villaggio di nascita di Kong, deragliò in seguito all'insorgere xenofobo di un pugno di confuciani radicali. Da oltreconfine arrivano idee perniciose in grado di corrodere l'integrità nazionale, si pensa nei palazzi del potere in piazza Tian'anmen, da cui ultimamente sono partite direttive particolarmente restrittive nei confronti delle ideologie d'oltre Muraglia. La convinzione che la parità di genere sia un prodotto dell'Occidente è sfociata l'8 marzo 2015 nell'arresto di cinque giovani femministe, trattenute dalla polizia più di un mese - senza accuse formali - per sospetti contatti con "forze straniere".
Per smarcarsi dall'impiccio, Li-Hsiang Lisa Rosenlee ribalta il problema. Siamo proprio sicuri che il femminismo sia prerogativa dell'Occidente? La studiosa contesta l'enfasi posta dal femminismo mainstream sul "genere" a dispetto del concetto di "cultura". Una volta ammesso che la donna non è soltanto un essere dotato di una sessualità, ma è anche il prodotto del contesto culturale in cui nasce e cresce, quando le femministe occidentali tentano di applicare al mondo cinese categorie a loro familiari come fossero universali finiscono per ridurre uno studio interculturale ad uno sostanzialmente monoculturale - senza tenere conto, per esempio, della diversità di fondo che permea la filosofia occidentale ("individuo-centrica") e quella cinese (in cui l'individuo trova massima espressione soltanto nello svolgimento del proprio ruolo all'interno della società). Secondo Rosenlee, dietro quest'approccio si nasconde un sentimento neocolonialista-imperialista in cui i valori occidentali prevalgono su tutti gli altri. Una dicotomia fallace tra Occidente "emancipato" (problem solver) e resto del mondo "tradizionale e sessista" (problem creator), a cui il femminismo confuciano risponde con il recupero pragmatico della cultura cinese e un pizzico di nazionalismo. Proprio come piace ai nuovi mandarini di Pechino.
[Pubblicato su Left]
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