giovedì 19 maggio 2016

Numero tre del PCC a Hong Kong


Si è conclusa giovedì 19 maggio la storica trasferta hongkonghese di Zhang Dejiang, numero tre nell'organigramma del Partito comunista cinese, presidente dell'Assemblea Nazionale del Popolo (il paramento di Pechino) nonché responsabile per le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao. "Storica", si diceva, non soltanto in virtù del tempismo con cui è stata programmata: Zhang è il leader di più alto livello ad aver visitato l'ex colonia britannica dalle manifestazioni del 2014, pro-democrazia e neanche troppo velatamente anti-Pechino. Nel 1997 il Porto Profumato è tornato alla madrepatria pur conservando una certa autonomia politico-economica sotto il motto "un paese due sistemi". Autonomia che all'alba delle elezioni per il chief executive del prossimo anno sembra messa a repentaglio dalla crescente ingerenza esercitata da Pechino negli affari interni dell'isola e sfociata nel fallimento della riforma elettorale all'indomani del movimento di Occupy Central.

E' così che se sulla carta l'arrivo del leader cinese era stato giustificato dall'organizzazione di un forum sul progetto a trazione cinese One Belt One Road (alias Nuova Via della Seta), in realtà l'atmosfera di contorno lasciava presagire possibili colloqui a porte chiuse sul futuro di Hong Kong e del suo amministratore delegato Leung Chn-ying, che vede molte incognite offuscare l'eventualità di un secondo mandato. Proprio per evitare iniziative moleste da parte dei filoindipendentisti, la polizia locale ha preso misure serratissime seppur non sufficienti a occultare le varie espressioni di dissenso. Alla vigilia della visita è stato sventato un complotto con drone ordito da uno dei membri della Lega dei socialdemocratici. Lungo le strade dell'ex colonia britannica sono apparsi striscioni critici nei confronti della mainland, mentre una cinquantina di esponenti della Lega dei socialdemocratici nella giornata di martedì ha sfondato i cordoni degli agenti per raggiungere la residenza ufficiale dello chief executive Leung Chun-ying. Brevi tafferugli sono stati sedati senza l'impiego di armi. Altri hanno invece deciso di protestare più pacificamente installando tombe di carta a Tamar Park in ricordo delle vittime della Sars deflagrata nel 2003 dalla provincia cinese del Guangdong, di cui al tempo Zhang era governatore. Cinque persone, compreso il giovane leader del movimento studentesco Scholarism, Joshua Wong, sono state trattenute dalle forze dell'ordine nella giornata di giovedì.

Aumento misure di sicurezza in occasione di visite di Stato dal 2011 a oggi

Contrattempi, questi, ai quali Zhang ha reagito in maniera composta e insolitamente schietta affermando che "le illazioni su un presunto tentativo del governo centrale volto a trasformare Hong Kong in una parte della Cina continentale, o a convertire 'un paese due sistemi' in 'un paese un sistema', sono completamente senza fondamento". Ma riconoscendo apertamente l'esistenza di sacche di malcontento e forme di radicalizzazione a livello popolare, di cui è segno tangibile la moltiplicazione di fazioni politiche indipendentiste. Una "minoranza" minacciosa che Pechino spera di tenere a bada stringendo cordiali rapporti con l'ala moderata dei pan-democratici. L'incontro dietro le quinte avvenuto tra Zhang e l'opposizione ha persino ispirato un editoriale del quotidiano-bulldozer Global Times, in cui la richiesta avanzata dai pan-democratici per una sostituzione dell'attuale chief executive viene definita "legittima". E c'è già chi ci intravede la transizione verso una nuova strategia più soft mirata a contenere la frustrazione montante tra le nuove generazioni hongkonghesi. Detto questo, è necessario evitare che il legittimo sentimento localista sfoci in separatismo, ha scandito l'emissario di Pechino chiudendo le porte all'ipotesi indipendenza. Uno spauracchio con cui l'establishment cinese si trova a combattere da anni e su più fronti. Specie ora la vicina Taiwan si appresta a tornare formalmente nelle mani del Democratic Progressive Party, cordata che fa della difesa della sovranità taiwanese la propria bandiera. 

Tanto per Hong Kong quanto per l'ex Formosa, il vero dilemma consiste nel bilanciare con precisione chirurgica identità nazionale e benessere economico. L'ex colonia britannica dipende dalla mainland per forniture di acque ed elettricità, mentre la "simbiosi" economica sembra cominciare a risentire del rallentamento della crescita cinese. Secondo gli ultimi dati del Wall Street Journal, l'economia locale procede a un passo dell'0,8 per cento, pari ad una contrazione dello 0,4 per cento nel primo trimestre dell'anno, la più consistente dal 2011. I consumatori spendono sempre meno (compresi gli shopper in arrivo dal continente), le esportazioni languono, e il mercato immobiliare sta subendo una correzione prolungata.

Nel complesso, Pechino si ritiene soddisfatta del lavoro fatto dal leader Leung Chun-ying, ha dichiarato Zhang. Ma la cooperazione tra la Repubblica popolare e la regione amministrativa speciale può dare maggiori frutti, specie per quanto riguarda l'internazionalizzazione del renminbi, la valuta cinese, e l'implementazione del progetto One Belt One Road, vero cavallo di battaglia della politica estera pechinese. 

(Scritto per Gli Italiani)


Nessun commento:

Posta un commento

Hukou e controllo sociale

Quando nel 2012 mi trasferii a Pechino per lavoro, il più apprezzabile tra i tanti privilegi di expat non era quello di avere l’ufficio ad...