“Come il suolo si indurisce dopo la pioggia, desidero che la mia visita di stato contribuisca a ristabilire la fiducia tra i due paesi e apra una nuova era per le relazioni Corea del Sud-Cina”. Lo ha dichiarato ieri il presidente sudcoreano Moon Jae-in in occasione di un forum che ha riunito a Pechino imprenditori di entrambi i paesi. Moon, che alla sua prima trasferta oltre la Muraglia da capo di Stato si è presentato con una delegazioni composta da oltre 300 dirigenti di società da Samsung a Hyundai, ha manifestato la volontà di espandere l’accordo di libero scambio — siglato nel 2015 — ad abbracciare il settore dei servizi e degli investimenti. “Lavorerò affinché lo sviluppo delle relazioni bilaterali negli altri settori raggiungano lo stesso livello di sviluppo delle relazioni economiche”, ha spiegato il leader in un velato riferimento alla crisi innescata dal dispiegamento del sistema antimissile americano Thaad a sud di Seul avvertito da Pechino come una manovra contenitiva ai propri danni. Durante l’ultimo vertice Apec, Moon e Xi sono impegnativi a ricucire lo strappo. La vista del presidente sudcoreano prevede stasera una cena di Stato con Xi a cui prenderanno parte anche star del k-pop fino a poco tempo fa bandite dal Regno di Mezzo come forma di ritorsione. Moon incontrerà poi il premier cinese Li Keqiang prima di proseguire per Chongqing, la megalopoli del sudovest dove opera la Hyundai. La visita ha un doppio contenuto simbolico dal momento che fu sede del governo provvisorio della Repubblica di Corea all’inizio del XX secolo ed è oggi uno degli hub più importanti della Nuova Via della Seta.
Oltre alle questioni bilaterali, a dominare il terzo incontro tra i due leader sarà l’escalation tra Corea del Nord e Stati Uniti. Soltanto ieri la Casa Bianca ha rettificato il messaggio amichevole con cui Rex Tillerson aveva offerto a Pyongyang l’apertura di negoziati “senza precondizioni”.
Cina e Usa pianificano il dopo Kim
Pechino e Washington sono in contatto per discutere cosa fare delle armi nucleari nel caso il regime di Kim Jong-un dovesse collassare. Lo ha dichiarato Rex Tillerson parlando martedì all’Atlantic Council, think tank con base a Washington. Secondo il segretario di Stato americano, gli Stati Uniti hanno inoltre assicurato a Pechino che, anche nel caso in cui le truppe statunitensi dovessero essere costrette a sconfinare in territorio nordcoreano, verrebbero alla fine richiamate in Corea del Sud. Si tratta dell’ennesimo segnale che i colloqui tra le due superpotenze si sono spinti in territori ritenuti fino a poco tempo fa offlimit. Difficilmente Pechino accetterebbe una Corea unita guidata da Seul, alleata degli Usa, con armi nucleari gestiti dai sudcoreani e con le basi militari Usa sul proprio territorio che a quel punto confinerebbe direttamente con la Cina, senza più avere il territorio nord coreano come cuscinetto. Le rassicurazioni americane sono pertanto musica per le orecchie del gigante asiatico, ormai propenso a valutare l’ipotesi di uno scenario senza quello che in passato veniva considerato un regime amico. Nell’ultimo anno, diversi interventi pubblici di accademici affiliati a rinomati atenei cinesi hanno sdoganato il silenzio a cui era stata relegata la questione nordcoreana. Gli appelli puntano sopratutto a un maggiore coordinamento militare con Washington.
Le autorità del Xinjiang a caccia di dati biometrici: oltre 19 milioni le persone coinvolte
Secondo Human Rights Watch, le autorità cinesi starebbero raccogliendo campioni di DNA, impronte digitali e altri dati biometrici relativi alla popolazione che abita la regione autonoma musulmana dello Xinjiang, colpita periodicamente da attacchi terroristici legati al movimento indipendentista uiguro. L’obiettivo è quello di creare un database con le scansioni dell’iride e dei gruppi sanguigni di tutte le persone tra i 12–65. Secondo l’agenzia Xinhua19 milioni di persone si sono già sottoposte “volontariamente” ai controlli, che i funzionari locali sostengono siano mirati a puntellare le politiche per la riduzione della povertà e a mantenere la “stabilità sociale”. Per HRW, tuttavia, il programma è in realtà declinato alla “sorveglianza delle persone a causa della loro etnia, religione, opinione o altro esercizio dei propri diritti, come la libertà di parola”.
“Trump e Kim Jong-un sono della stessa pasta”
A pensarlo è Dennis Rodman, l’ex cestista americano amico intimo del leader nordcoreano, che ad Afp ha spiegato: “entrambi amano il controllo e nessuno ha il dito sul pulsante”. Rodman, che ama dipingersi come peacemaker, è arrivato in Cina lunedì dopo essere stato a Tokyo e sull’isola di Guam e sta cercando di ottenere un “permesso speciale” per potersi recare per la sesta volta in Corea del Nord, nonostante il divieto di viaggio approvato dagli Usa a luglio. Mentre sarà lì, il campione dei Chicago Bulls ha in programma di girare un documentario e scrivere un libro sul suo rapporto con Kim. I due sarebbero talmente tanto intimi che, nel 2013 e 2014, il leader nordcoreano pare abbia chiesto a Rodman di inoltrare “tre ragionevoli proposte” al presidente americano. Questo avveniva prima dell’arrivo di Trump, che a quanto pare ha declinato l’offerta. Tutt’altro che scoraggiato, l’ex cestista non si dà per vinto e ha già in mente di ricorrere alla “diplomazia del basket” organizzando un incontro tra la squadra della Corea del Nord e quella di Guam in territorio neutro, ovvero in Cina.
Arricchirsi con la crisi umanitaria dei rohingya
Il flusso continuo di sfollati rohingya oltre il confine con il Bangladesh sta mettendo a dura prova le risorse del governo di Dacca, ma a livello locale c’è anche chi ha saputo capitalizzare la crisi umanitaria. La vita attorno al campo profughi di Kutupalong, nel distretto di Cox’s Bazar, oggi è molto più dinamica. “Un tempo non c’erano rifugiati e le strade erano brutte. Non sarei venuto qui nemmeno per 500 taka, ma oggi la viabilità è OK e ci sono molti passeggeri. Adoro lavorare qui”, racconta Asfar che con il suo motorino blu fa da tassista ai rohingya in arrivo dal Myanmar. La paga di un giorno può arrivare a 2500 taka (circa 30 dollari), non male se si considera che il reddito annuo nel paese è in media di 1599 dollari. Negozi che vendono dai vestiti ai generi alimentari sono sorti tutto intorno alle strutture d’accoglienza. Persino i rohingya, nel loro piccolo, si sono messi a fare affari; alcuni hanno venduto i pochi gioielli che avevano, altri si sono fatti mandare del denaro dai parenti all’estero. Comprano dai venditori all’ingrosso intorno a Kutupalong e rivendono ai nuovi arrivati. Secondo stime della gente del posto, ormai il 95% degli avventori è composto proprio dai rifugiati. Intanto, secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa, nello stato Rakhine “la vita si è fermata”. Le continue tensioni tra musulmani e buddhisti ostacolano la riapertura di negozi e mercati, un fattore che complica non poco il piano di rimpatrio dei rifugiati al vaglio dei governi di Dacca e Naypiydaw.
E non è un buon segno che mercoledì il ministero dell’Informazione abbia annunciato l’arresto di due giornalisti della Reuters impegnati a fare chiarezza sulle operazioni portate avanti dai militari contro i musulmani rohingya. I due rischiano fino a 14 anni di carcere sulla base dell’Official Secrets Act del 1923.
(Pubblicato su China Files)
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