mercoledì 5 marzo 2014

Crisi ucraina: Pechino sta con Mosca? Ni


Dalla Primavera Araba alle proteste di piazza Maidan; ogni qualvolta una parte di mondo sfida i potenti per affermare i propri diritti, qualcuno in Cina si chiede quando a ribollire saranno le strade del Regno di Mezzo. La verità è che l'opinione pubblica cinese sembra essere più interessata ad alzare la voce quando si tratta di far chiudere una fabbrica inquinante che appesta il proprio cortile di casa, piuttosto che a battersi per la democrazia.

«Congratulazioni al popolo ucraino per la sua battaglia per la libertà» recitava uno striscione esposto da alcuni attivisti nella provincia dello Hunan. Eppure, buona parte dei cittadini cinesi sembra condividere le posizioni del governo, secondo il quale la Cina non ha bisogno di una rivoluzione violenta, perché la democrazia (come la intendiamo alle nostre latitudini) non può fungere da panacea per tutti i mali. Sopratutto non per tutti i Paesi, caratterizzati da trascorsi storici e background culturali differenti. La crisi ucraina non fa che aggiungere un'altra freccia alla faretra della realpolitik cinese.

Negli ultimi tempi il messaggio veicolato dai media governativi è stato sostanzialmente sempre lo stesso: il rovesciamento dello status quo non è necessariamente garanzia di un futuro migliore, come insegnano i casi di Siria, Libia, Egitto e Venezuela. "Il copione si ripete ogni volta che c'è un conflitto civile oltremare", racconta a 'L'Indro' Gang Guo, professore associato di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l'Università del Mississipi "e sembra, tra l'altro, che il messaggio sia indirizzato prevalentemente alla beneducata classe media, ovvero 'gli elettori indecisi' della Cina di oggi".

Pechino sospetta che le 'rivoluzioni colorate', compresa quella ucraina del 2004, siano state alimentate dall'Occidente per scacciare regimi considerati ostili. Una lunga marcia verso la democrazia guidata in principio dagli Stati Uniti sotto le amministrazioni Clinton e Bush, poi passata all'Unione Europea quando, con l'arrivo di Obama alla Casa Bianca, Washington cominciò a mostrare maggior interesse per altre regioni. Quello che di fatto sta cercando di fare l'Ue, secondo la vulgata semi-ufficiale del tabloid nazionalista cinese 'Global Times', è attrarre Kiev all'interno del suo sistema politico-economico, entrando a gamba tesa negli interessi geopolitici che Mosca detiene storicamente nell'area. Il quotidiano-bulldozer di Pechino sottolinea come «Nazioni dell'Europa dell'Est, quali Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, abbiano intrapreso una transizione morbida, mentre altri Paesi rimangono lacerati al loro interno, preda di perenni tumulti. Altri Stati, come il Kazakistan e il Turkmenistan, sono rinati grazie alle ricche risorse e a uomini politici forti. Eppure l'Occidente rifiuta di riconoscerle come democrazie (...) I Paesi occidentali non investiranno molto nella transizione pacifica dell'Ucraina semplicemente perché non  trarrebbero alcun vantaggio dal mantenimento della stabilità. Le vicissitudini del mondo esterno ci dicono che la Cina deve avviarsi lungo il sentiero della democrazia, traendo insegnamento dagli errori altrui (...) La rinascita cinese è destinata ad essere un processo di sforzi e riforme, e l'unica scelta che abbiamo è costruire un Paese democratico e liberale con caratteristiche cinesi».

Come spiega il 'Quotidiano del Popolo', megafono del Partito, prima di collassare nel 1991, l'Unione sovietica era stata in grado di silenziare le tensioni che scorrono tra la parte orientale e occidentale dell'Ucraina; «l'indipendenza ha scoperchiato un vaso di Pandora di attriti etnici e religiosi, risultante nella stagnazione economica del Paese e nell'allontanamento degli investimenti esteri». Oggi l'Ucraina ha un reddito pro capite che equivale al 60% di quello cinese. Spesso nazioni popolose, come l'Ucraina (che conta 46 milioni di abitanti), non riescono a risolvere le complesse divisioni etnico-religiose quando vengono travolte da cambiamenti politici repentini (la Jugoslavia insegna).

Quello dei conflitti etnici è un problema contro il quale Pechino si scontra da anni. Dopo le proteste sanguinose nelle regioni autonome occidentali di Tibet e Xinjiang, negli ultimi mesi il Gigante asiatico ha assistito inerme ad un 'attentato' in piazza Tian'anmen e a un massacro a Kunming, nello Yunnan, provincia ad alta concentrazione di musulmani. Entrambi 'attacchi terroristici', che stando alle autorità cinesi, porterebbero la firma di un gruppo di estremisti appartenenti all'etnia minoritaria turcofona uigura, che abita lo Xinjiang. Per il Partito, un processo di democratizzazione di tipo nostrano certamente condurrebbe il Far West cinese in uno stato di caos ancora maggiore.

Negli ultimi dieci anni, tra i circoli accademici del Dragone si è fatta strada la convinzione che la causa della disgregazione dell'Urss sia da imputare all'incapacità di fare ordine nel brodo primordiale dei disordini etnici. Come ricorda Evan Osnos sul 'New Yorker', quando nel 1986 i manifestanti kazaki scesero in piazza, l'allora Segretario generale del Partito comunista dell'Urss, Mikhail Gorbaciov, oltre a reagire militarmente, nominò un apparatcik kazako e attenuò alcune leggi sulla lingua particolarmente impopolari. La manovra, tuttavia, finì per innescare una levata di scudi da parte degli altri gruppi etnici.

Memore delle sorti toccate al blocco sovietico, la Cina non farà la stessa fine. E' quanto sembra aver voluto assicurare il Presidente cinese, Xi Jinping, fin dai primi mesi del suo mandato, promettendo riforme, ma rigettando il modello Gorbaciov. Nel dicembre 2012, durante un meeting interno al Partito, Xi ha esortato la Cina a interrogarsi sulle ragioni del collasso dell'Unione Sovietica e del suo Partito comunista. «Una motivazione importante è che i loro ideali e le loro opinioni hanno vacillato», avrebbe dichiarato Xi, stando ad alcuni stralci del discorso rimbalzati sulla stampa straniera.

Se infatti le rivolte etniche sono la spina conficcata nel fianco del Dragone, la corruzione è il male che affligge la sua testa autoritaria: il Partito. Stando a quanto lamentato da alcuni netizen cinesi, dopo che la tv di Stato 'Central China Television' ha coperto ampiamente le proteste di Kiev, la vittoria del popolo, il colpo militare e la fuga del Presidente Yanukovich, «l'attenzione è stata spostata sul revival militarista giapponese». Il governo «non ha osato raccontare l'odio dell'Ucraina nei confronti della corruzione dei funzionari», scrive l'internauta Xiao Li. (Segue su L'Indro)

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